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Così ho fatto morire un po’ di notai a Torino

Di |2022-07-29T07:46:59+01:005 Ottobre 2018|Stanno uccidendo i notai|

Ripubblicazione del mio romanzo, che era uscito per Cairo nel 2008. Qualche estratto con funzione di trailer

Articolo 1

Dove si introducono i protagonisti della nostra storia,

un notaio viene ucciso e si stipula un contratto

fra un cliente e una prostituta (altro…)

Il video che racconta l’inizio di “Domani nella battaglia pensa a me”

Di |2020-09-11T15:16:16+01:0018 Maggio 2018|Sulla scrittura|

Continuano i brevi video di tre minuti per raccontare gli inizi folgoranti dei romanzi. In linea con il regista Werner Herzog che, quando qualcuno sosteneva di avere una grande storia tra le mani, chiedeva: “What’s your first shot?” (altro…)

Il trailer del romanzo

Di |2020-09-11T15:16:37+01:0029 Settembre 2017|Istruzioni per non morire|

Scaricalo o guarda qui sotto il trailer

SCARICA QUI IL ROMANZO

 

“E’ venuto il momento, Roberto. Fra quattro giorni devi morire”.

Il cuore di Roberto diede uno strattone. Lo stava minacciando? Provò ad afferrarlo per il braccio ma la sensazione che ricevette dal contatto lo terrorizzò.

“A tutti. Capita a tutti. Da sempre non c’è una sola persona che quattro giorni prima di morire non abbia ricevuto la nostra visita e l’avvertimento”

“Nostra? E chi sareste “noi”?

“Quelli che vengono ad avvertire”

“Sì, d’accordo…intendo…cosa siete, cosa è lei? Un angelo?”

L’altro si schernì con un gesto e abbozzò un sorriso.

“Lasciamo perdere gli angeli, Roberto. Comincia a entrare in quest’ordine di idee. Non ci sono angeli, non ci sono diavoli. Non sono venuto a prenotarti né per il paradiso né per l’inferno.

“Ricorro? E’ come se fosse un tribunale…”

“Chiamalo come ti pare”

 

 

Aveva una vita di ritardo per mettere insieme un ricorso decente. Si sarebbe affidato all’estro del momento. Da poche ora aveva sfiorato la morte e in questo momento gli faceva meno impressione. Non c’è nulla per cui non ci si possa allenare efficacemente, nemmeno morire. Ora comprendeva la saggezza stoica dei filosofi, e anche l’arditezza del soldato che scavalca per la centesima volta la trincea sotto il tiro nemico.

 

 

L’idea di Machaut, dunque, era quella di convincere, in cambio di una retribuzione monetaria, persone gravemente malate a lasciarsi installare, tramite una semplice iniezione, una micro-sonda in grado di navigare attraverso i vasi sanguigni  cogliendo ogni sintomo negativo dell’organismo e spostandosi in funzione di quello. I suoi segnali sarebbero stati tradotti in un apparato acustico-visivo accattivante, dando la possibilità agli acquirenti delle app di seguire questi passaggi su uno schermo.

 

 

Quel giorno emerse dai veli e rotolò sotto Roberto. Le bocche lanciarono le reti. Il seno di Amande era un commento a margine, e Roberto si rassicurò nel percepirlo carico di attese. Lo lesse con cura, senza perdere il segno con il dito e infine lo riepilogò in un’unica stretta. La lingua di lei reagì con una scossa elettrica e si disperse per portare la buona novella al corpo tutto di lui. Lui le entrò dentro subito con un’aggressiva voglia di vivere che lei scambiò per rabbia.

 

“E’ un parente? Non avevo mai visto nessuno con lui”

“No, io…io faccio parte di un’associazione di volontariato. Veniamo…veniamo negli ospedali ad assistere chi non ha nessuno vicino e a dire una preghiera per lui”.

“Ho sentito che gli parlava. E’ bello questo, anche se non può sentirla. Anzi, è bello proprio perché non può più sentirla”.

Roberto esitò prima di replicare: “In che senso?”

“Nel senso che lo trovo un bell’omaggio. Tra persone coscienti la metà del tempo la passiamo parlando a persone che non ci ascoltano, e la consolazione è che faremo altrettanto quando sarà il loro turno. Ma qui è differente. Lui è già lontano da qui.  Però il suo corpo ancora si aggrappa a quello che trova. E noi gli infiliamo tra le dita l’ultimo biglietto di saluto. Guarda che anche se non ci sei più io ti parlerò egualmente. Con mio marito lo faccio da tre mesi ormai”.

 

“Uno spiritista” rise artificiosamente Rouzier “Un infiltrato nella congrega dei Pra-Pra, Pragmatici Programmatori. Alla prossima assemblea, padre Polbec, chiederò la sua espulsione dalla compagnia. Ma non stiamo a farla lunga! Il nostro immenso capo, che ha una marcia in più del mondo, compresi tutti noi quattro messi insieme, si diverte a prenderci per il culo con la storia della pornografia. Gamification? Ve lo siete scordato? Questa è l’epoca in cui l’uomo, finalmente, è riuscito a ridurre tutto a un gioco. Mettendo da parte ogni fottuta ipocrisia. Quando tutti, seduti al tavoli di pranzo, guardavano il telegiornale la voce del mezzobusto che annunciava una strage veniva sempre coperta dalla richiesta di passare il sale. Qualcuno si è mai guastato l’appetito? ”

 

Rose si era improvvisamente irrigidita.

“Cosa ho detto che non va? Era solo un’ipotesi…”

“Sono arrivati, maledizione. Guarda quel tizio con la maglia a righe che sta passeggiando dal lato opposto”

“Quale? Oh, ma…è quello che mi sta seguendo da giorni! Adesso vado…”

“Fermo, non ti muovere! Maledizione! Ti segue da giorni? Sono stati più veloci di quanto credessi. Hanno immaginato che potessi tornare da mio padre e hanno messo quello a presidiare la zona. E’ un killer, una iena. E’ americano ma partecipava alle riunioni del cartello. Briggs si chiama”.

 

 

La conversazione fu minima, ma Lilith non pareva accorgersene. Benchè consapevole che la vera intimità consiste nella possibilità di rimanere in silenzio per ore quando si è insieme, Roberto non finiva mai di stupirsi dell’incapacità che lei aveva di percepire i suoi stati d’animo, e della sua tendenza a lasciare libero spazio al mutismo di lui quando era evidente che proveniva da angoscia o irritazione. D’altronde Lilith girava al largo da ciò che poteva creare conflitto o tensione: Roberto paragonava il suo modo di stare al mondo a quello del bagnante sulla spiaggia che sposta continuamente la sdraio a ogni movimento del sole per conservare la frescura dell’ombrellone ed evitare accuratamente le scottature.

 

 

Tese il guinzaglio e alla fine riuscì a sganciarsi gettandosi abbaiando fuori dal marciapiede. “Kelly” gli strillò dietro la padrona, ma il cane, avanzato di qualche metro sino quasi alla linea di mezzeria, si tratteneva sulla strada, ignorandola. La donna lo chiamò ancora ma la voce le uscì fioca, si portò sul bordo del marciapiede e con il guinzaglio che le pendeva si accingeva ad attraversare per riprendere il cane. Fu a questo punto che fece un gesto che a Roberto parve del tutto incongruo e, invece di voltarsi dal lato sinistro per controllare che non arrivassero macchine, si girò inequivocabilmente a guardare Gaston e alzò lentamente la mano destra in un segno di saluto, che Gaston ricambiò. Poi mosse decisa giù dal marciapiede e la berlina che sopraggiungeva a non meno di sessanta all’ora la travolse in pieno e la trascinò per una decina di metri davanti prima di completare la frenata. Kelly emise un latrato lancinante e cercò di infilarsi sotto il paraurti. Di lei si vedevano le gambe immobili.

 

 

 

“Ti conviene cambiare atteggiamento, ragazza. Voglio i nomi delle tue compagne. Non dico che in cambio ti prometto un futuro felice ma almeno ti eviti una morte da incubo”.

“Lascia andare mio padre” il filo di voce di Rose era molto meno vigoroso delle nuvole di tabacco bruciato di Briggs, simili a lampi di cherosene nella notte. “Non sa nulla”.

“Non sa nulla? E chi sa se lui non sa? Perché ti saresti affrettata a correre qui? Se ci dai tu le informazioni in effetti non abbiamo più cosa farcene del tuo paparino. Altrimenti lo teniamo, all’inizio solo come spettatore, dei tuoi prossimi impegni e vediamo come reagisce. Dai, semplifica le cose e lo faccio scendere dalla macchina”.

“Non ti credo. Quali garanzie mi dai?” sembrò rianimarsi Rose. Dall’altra parte echeggiò una risata fragorosa. “La sentite ragazzi? Vuole le garanzie la signora! Come le banche! E’ per questo che c’è la crisi economica sai? Nessuno vuole muoversi più senza garanzie. E poi ci si lamenta che le persone muoiono di fame. O di qualcos’altro. Quanto manca, Ramon?” disse rivolgendosi all’indio.

 

 

Se non si fosse sentito così legato a suo padre in quel momento Roberto non avrebbe osato aprire la raccomandata che il postino consegnò due minuti dopo che il padre era uscito.

 

 

“Di tutti i discorsi su Dio mi ha sempre colpito questa necessità che ciò che accade nel mondo debba rispondere a un fine, e che il nostro limite sia quello di non comprenderlo. Ma in passato mi sono sempre chiesto: perché mai ci avrebbe dovuto confondere le carte e farci giocare con fini differenti dai suoi? Magari è vero, i suoi fini sono diversi dai nostri ma solo perché si è evoluto, è andato avanti, li ha perfezionati. I nostri sono fini primitivi. Io lavoro nell’informatica, sa, e quindi mi capita di usare metafore sacrileghe chiamando in causa gli strumenti del mio lavoro: così una volta ho detto che Dio si è dimenticato di aggiornarci il software. Ha presente tutti quegli avvisi che arrivano sul computer e ti dicono che il tuo antivirus, o qualche altro programma, non è aggiornato? Così. I nostri fini, rispetto ai suoi, sono soltanto vecchi. E senza aggiornamento si fa quello che si può”.

 

 

Quell’immersione nella consapevolezza di sé, di fronte alla figlia inconsapevole, lo rendeva nudo, umiliato, fragile. Avrebbe voluto, in una rigenerante inversione di ruoli, cercare conforto e riparo nel suo grembo, nel suo sterno di volatile, sotto le sue ali d’aquilotto, sotto la tenda canadese della sua gonna dalla vita stretta, e lì, bambino, implorare il perdono della sua bambina che così malamente aveva allevato. Chiederle quale balordo, quale mezzo tossico, quale spiantato, quale puttanella, quale randagio, quale scorpione a dorso di rana, quale latte scremato, quale tronco abbattuto, quale lendine morta, quale crosta ammuffita era il suo confessore, la sua boa, la sua cassetta di sicurezza, e chiederle il permesso, lui, quel falso d’autore di padre, quell’ascensore bloccato tra i piani, quell’orma sulla sabbia che il ghibli stava cancellando, di interpellare il suo confidente, di inginocchiarsi al confessionale, di attaccarsi alla boa, di scendere nel caveau della banca, e domandare infine, tu che certo vali più di me, sapresti indicarmi come potrei giustificare che voglio continuare a vivere?

 

Essendo cieca poteva risultare irrilevante la direzione del suo sguardo. Eppure lei, che aveva la capacità di individuare la posizione precisa del mio corpo anche nel silenzio e nell’immobilità e parlarmi puntando il viso nella mia direzione, cambiava atteggiamento in quelle occasioni, e si profilava, rispetto a me a tre quarti, mostrandomi solo il lembo estremo di una delle pupille fisse: come se, inversamente alla serietà dell’argomento, si elevasse il pudore a esibire la bianca vacuità della sclera.

 

 

L’ultimo di cui mi sono occupato, la scorsa settimana, mi raccontava del figlio, quand’era piccolo, che si stendeva sul pavimento vicino a lui, a scarabocchiare, a disegnare, mentre lui lavorava. E a un certo punto mollava il lavoro, e si piazzava anche lui sul pavimento. E’ la più bella sensazione che ho provato, ha detto, e io lo guardavo senza capire. E lui insisteva, chi non ha vissuto quest’esperienza non ha assaggiato il meglio della vita. E quando il figlio è cresciuto, e si sa che non accadrà più, per quanto si possa essere impazienti di vederlo cresciuto, la perdita del pavimento, che ritorna a essere esclusivamente suolo da calpestare, è già un pezzo di morte”

“Io ho avuto una figlia, ma non l’ho provata quest’esperienza. Siamo vissuti distanti. Fisicamente, ma forse non soltanto quello. Credo di averla presa in braccio pochissime volte. Magari le questioni sono collegate. Non sei degno di alzarlo, un figlio, se non sai accorgerti di quanto è bello in basso, radente alla terra”

“La vita non è ciò che accade ma la capacità di dargli senso, questa è la convinzione che mi sono fatto, studiandola da fuori. Ne sono ammirato. Non un senso meccanico, come le procedure di cui mi occupo. Non l’incastro dei pezzi ma l’abilità di scomporli, di modificarli”.

“Allora temo che sarei un pessimo insegnante”

“Perché?”

“Perché mi riconosco di più nel senso meccanico. Perché arricchire le cose di un senso personale è una fatica, una scommessa, una sfida. E’ più comodo trovarsele al mattino con attaccato il cartellino che c’hanno messo gli altri. Che qualità ci vuole per dare un senso? L’intelligenza? Il cuore? L’istinto? Forse non sono una cima in niente, ma nemmeno proprio arido. E però ho imparato a campare così, superficialmente. Con il dolore ho optato per un patto di non belligeranza: lui promette di lasciarmi in pace e io di non chiedere tante spiegazioni. Sfuggo, svicolo, dimentico, oppure mi adatto.

 

 

 

“Memoria! Lo vedi, cominci a parlare esattamente come un umano. Non hai mai pensato che nessuna vita sarà mai estirpata sulla terra finchè esisterà la memoria? Ma sarebbe una discussione troppo sofisticata per te. E però non ti biasimo. Anche io fino a ieri ho vissuto all’ombra del rassicurante concetto che la correttezza di una procedura sia il massimo concetto filosofico ed etico elaborabile. Che fosse l’imitazione, o lo specchio della natura. Ma dietro l’apparente assenza di acredine verso questi esseri di cui ci occupiamo sulla terra nutriamo una profonda invidia, il dubbio che abbiano ragione loro. Che valga la pena di scompaginare le procedure, perchè ciò che vale è un progetto. Inseguirlo, realizzarlo, inciamparci, fallirlo, rinnovarlo, superarlo”

 

 

Stabilimmo un contatto tra le anime di quello che mai si potrebbe stabilire all’aperto, in mezzo agli altri, in mezzo alle convenzioni, in mezzo alla parole, nell’ingombro della luce, due esseri che si uniscono in un’identica nostalgia del nulla e in un’ubriacante pienezza, che non si conoscevano e non si devono niente, minacciati ognuno da se stesso, con la consapevolezza irripetibile che la vita non è altro che un ciclo alternato di perdita e riconquista, con l’ansia inattesa di ricominciare a perdere per poi poter riconquistare.

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