Complimenti Michele Mari, sembri vecchio di qualche secolo

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Il Lettore Inattuale non si fa schiavizzare dai tempi dei cataloghi e delle novità. Il Lettore Inattuale ogni tanto, di ritorno dalla libreria, custodisce il suo nuovo amico di carta in uno scaffale un po’ in alto nella sua biblioteca e dice: verrà il momento che…Può anche passare qualche anno ma il momento arriva.

 

Il Lettore Inattuale che pesca dalle riserve della propria libreria Roderick Duddle, senza dare troppo peso alle note di copertina, ma inforcandolo subito per intellettualmente penetrarlo potrebbe facilmente cadere preda del gioco dell’autore. E ignorare che costui è Michele Mari, e il romanzo è del 2014, collocando piuttosto il testo nel lussureggiante Ottocento britannico, se non addirittura nel Settecento. Forse è anche per questo che, a titolo di avvertimento, Michele Mari contravviene alla sua (quasi) rigorosa imitazione di quel canone letterario nelle prime due paginette abbondanti, e anzi inaugura il primo rigo con il virgolettato “In verità…io…mi chiamo Michele Mari” contro cui rimbalza altro più cruento e forbito virgolettato, “Mi prendi per scemo? Affeedidio che ti farò assaggiare il mio staffile, pendaglio da forca!” pronunciato da uno dei gaglioffi che da lì a poche battute (in senso sia dattiloscritto che teatrale) animeranno in modo più consono e legato alla tradizione il mondo che ha messo in piedi con questo libro: quello che sarà (salvo un’ultima comparsata finale) non propriamente il suo mondo ma quello del suo protagonista Roderick Duddle. Soprattutto il nostro mondo di lettori, trascinati dentro gli interminabili intrighi dell’opera, consegnanti a una fantasmagorica vita d’altri e vita altra con quella gioia di un simile trastullo e trasporto come l’abbiamo conosciuta da bambini.

 

In effetti, ad onta della data di pubblicazione e dei dati biografici dell’autore, Roderick Duddle è la riproposizione di un romanzo inglese dell’Ottocento: sotto il profilo tematico radica saldamente i riferimenti a Oliver Twist di Dickens, visto che la storia ruota intorno all’orfano partorito dentro un bordello dal quale, alla morte della madre, viene scacciato ma che subito dopo si rivela essere discendente aristocratico designato a ereditare una fortuna e per questo viene inseguito da ogni sorta di farabutto, con l’obiettivo prioritario di scippargli il medaglione che attesta i suoi natali.

Se è vero che il canovaccio è dickensiano, la fauna umana gravita piuttosto nell’area di Stevenson e dell’Isola del Tesoro, il tono disincantato e ironico vira verso il Fielding di Tom Jones e il costante ammiccamento al lettore è un sapiente tributo al Tristam Shandy di Sterne.

 

Nessun incontro potrebbe, per il Lettore Inattuale, essere più appropriato di quello con Michele Mari, che si pone nel panorama letterario nazionale (con una qualità che da quello sconfina) come l’Autore Inattuale per eccellenza, l’anti-mainstream, scrittore che per complessità stilistica e strutturale scarta per lo più in avanti nei tempi, qualche volta di lato e in questo caso all’indietro. Come a dire agli sparagnini lettori contemporanei: se siete così pigri nel cimentarvi con i classici ve ne cucio adesso uno io pari pari e vi frego.

L’esercizio di bravura di Mari è notevole e tanto più rappresenta un calco (fra poco però vedremo perché non lo sia del tutto), in cui l’imitazione prevale sull’originalità della trama e il rispolvero degli stereotipi di genere impera, tanto meno rimane virtuosismo fine a se stesso: in uno splendido e risalente intervento a un seminario (qui il testo) Mari, nell’esaltare il valore della tradizione letteraria, ha teorizzato che non bisogna preoccuparsi che certe cose siano già state scritte e anzi che si possono scrivere proprio perché sono già state scritte. Benchè innumerevoli siano i cambiamenti di stato, non si può dire che il romanzo sia attraversato da autentici colpi di scena: se ogni volta che sembra giungere alla conclusione torna a diramarsi nella molteplicità del possibile è perché una narrazione, in se stessa, si protende naturalmente verso la dilatazione, e questo è ciò che la distingue dall’esigenza sintetica della narrazione concreta, rivolta verso un obiettivo funzionale. E’ quanto apprendiamo da bambini (prima di dimenticarlo, travolti dalle mille narrazioni del concreto che si abbattono su di noi appena solleviamo la testa dal cuscino: e con noi lo sta dimenticando buona parte della letteratura).

 

Si tratta dunque un libro centrifugo: il piccolo Roderick non è il protagonista ma l’occasione, il collante, il pretesto, sino al punto da essere gettato sull’orlo della futilità, prima che la risacca lo risospinga sulla riva dell’essenzialità narrativa. Già questo è un piccolo strappo al gioco dell’imitazione. Ma ci sono altri aspetti in cui Mari trasgredisce sottilmente il canone.

Il primo è un frutto mirabile della sua metabolizzazione e consiste nella rispettosa parodizzazione: la scrittura è insomma al tempo stesso autentica e ammiccantemente falsificata.

 

Più importanti ancora due dettagli sostanziali. Uno, assai più post-moderno che classico, è l’elevarsi al ruolo di primattrice di un personaggio lungamente secondario e subalterno, Suor Allison, che diventa anzi una sorta di deus ex machina. Se per un verso si potrebbe intendere quale dimostrazione che i personaggi sono entità in qualche misura antagonistiche rispetto a uno scrittore e capaci di sopraffarlo, per l’altro non è indifferente che il personaggio in questione sia anche fisicamente (è un ermafrodito) l’incarnazione dell’ambiguità. Esso suggerisce che Mari abbia messo insieme il gusto della narrazione pura e fluente con l’opposto di un obiettivo metaletterario: l’ambiguità della suora è quella di ogni progetto letterario, tirato com’è da tutte le parti per trovare lo sbocco e oltre tutto incerto tra l’intento edificante e la proposizione puramente diversiva di un mondo parallelo.

 

Quello di Roderick Duddle, tuttavia, è un mondo parallelo non perfettamente allineato con il canone classico e apparentemente incompatibile con l’intento edificante. Nessuno dei personaggi, infatti (salvo qualche momento eccezionale e caduco, per lo più possibile nella massima distanza anagrafica, tra un vecchio e il bambino) precisamente ama. Nell’universo antropologicamente pessimista del Roderick Duddle collidono desideri che diventano azioni, naturalmente conflittuali per il loro concorrere: è la loro occasionale convergenza che può essere erroneamente scambiata per un manto morale. Parrebbe mancare il potere del riscatto che nella letteratura classica quasi coincideva con la licenza di stampa. Ma, come si diceva, il romanzo di Mari parla sottilmente di letteratura, e la sua teoria della letteratura- si rimanda di nuovo all’intervento citato sopra- non le riconosce potere socialmente salvifico, rammentando come ne circolasse di eccellente nella Germania nazista. Spetta al singolo districarvisi e trarne giovamento, e la condizione è che accetti di misurarsi, se non con il male assoluto, con la pericolosa pendenza che assume l’ambiguità, disposta tuttavia a rovesciarsi persino nel candore più innocente.

 

 

Michele Mari. Roderick Duddle. Einaudi.

Di |2020-09-11T15:16:37+01:0014 Settembre 2017|Sulla scrittura|

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