Mussolini «primo sportivo d’Italia»

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Che Mussolini dovesse sostenere la campagna di valorizzazione dello sport è più che comprensibile, e pertanto appare normale che egli comparisse, pur talvolta annoiandosi, in occasione delle grandi manifestazioni sportive e delle partite di calcio,alle quali aveva anche l’encomiabile abitudine di pagare il biglietto. Diventava semmai grottesco fare di lui il deus ex machina che consentiva, con il solo aleggiare del suo spirito,

il volgere delle sorti a favore delle nostre squadre, ma tutto sommato si rientrava nel campo dell’ordinaria apologetica che lo riguardava. E ancora plausibile deve ritenersi che si volesse accreditare la sua immagine come quella di un atleta, avvantaggiato in tal senso rispetto al nazismo che non poteva fare altrettanto per via della fisionomia pallida e macilenta del suo führer. Ma il regime, direttamente pungolato dalla vanità dell’interessato, volle andare oltre e trasformarlo in una specie di poderoso pentatleta, in un campione nascosto. Egli era di volta in volta fotografato e magnificato come il miglior praticante dell’una o dell’altra specialità e, anzi, la scelta degli sport era indicativa delle promozioni ideologiche che di volta in volta il fascismo voleva perseguire. Non a caso, infatti, non c’è una sola foto che lo ritragga in bicicletta, benché talvolta egli la inforcasse, mentre, pur essendo definito il primo cacciatore o il primo aviatore d’Italia, non aveva praticamente mai colpito un uccello o pilotato un aereo: il volto moderno e futuribile che il regime amava darsi contrastava visibilmente con il carattere plebeo del ciclismo.

Sul libro unico di testo per le elementari si leggeva: «Sul mare come nel cielo, la giornata del Duce è sempre un trionfo luminoso di fresca e virile giovinezza. Dominatore della storia, Mussolini è anche dominatore del proprio organismo, che risponde ai suoi ordini come un sicuro e perfetto motore: dai più importanti e delicati affari di stato, la giovinezza di Mussolini passa alle più multiformi manifestazioni di sana e gioviale attività sportiva. Sempre fresco, sempre agile, con una vivacità sorprendente». Ma il libro di testo, rispetto alle incursioni giornalistiche nella vita sportiva, poteva apparire, per distacco e obiettività, uno scritto dei fratelli Rosselli. Ecco quanto si legge su «La Stampa» il 2 dicembre 1934, attribuendo per giunta la fonte a un giornale parigino: «A Villa Torlonia pratica ogni giorno uno sport. Il lunedì marcia. Egli percorre con gioia e senza sforzo apparente parecchi chilometri, ad un’andatura rapida e cadenzata qualunque sia il tempo. Io prendo una boccata d’aria vivificatrice – Egli dice – e nel tempo stesso mi avvicino alla natura. Io amo il cinguettio degli uccelli sugli alberi, lo scricchiolio dei ramoscelli che si rompono sotto i miei piedi, o anche la pioggia che mi inonda il viso o la neve che attutisce il mio passo. Il martedì è dedicato al nuoto. I moderni sistemi di nuoto sono conosciuti dal Duce che si tuffa con audacia in piscina e nel mare e termina volentieri la nuotata conversando nell’acqua con i suoi figli. Sulla sua motocicletta o sulle auto da corsa Egli divora il mercoledì le belle strade che si snodano nella campagna romana. Pilota pieno di audacia non ha mai avuto il menomo incidente e se qualche volta il mezzo meccanico lo tradisce, Mussolini non esita a ricercare lui stesso la causa del guasto senza preoccuparsi dell’olio o del grasso che sporcano le Sue mani. L’abilità di Mussolini nel cavalcare è ben nota. Il giovedì Egli salta tutti gli ostacoli con facilità da perfetto e audace cavaliere. Il suo cavallo bianco, che Egli circonda di ogni cura e che è davvero focoso, sa comprendere l’affetto del Suo padrone nitrendo in modo significativo allorché sente la Sua voce. Due ore di volo e di motonautica occupano il venerdì e costituiscono la migliore ricreazione del Duce. Il sabato è consacrato a una lunga seduta di scherma, seguita da una di pugilato. Anche in ciò Mussolini prova che il suo corpo ha un’agilità sorprendente. Infine se talvolta di domenica accade al Capo del Governo di prendere un’ora di riposo complementare Egli non dimentica l’indispensabile educazione fisica. Aggiungiamo inoltre che il Duce è un pilota emerito che a bordo del Suo aeroplano e del Suo idrovolante ha coperto perfino, come da Venezia a Roma, più di 800 chilometri senza scalo». E chiaro che in articoli del genere, tutt’altro che infrequenti, lo scopo non è più quello di promuovere lo sport attraverso Mussolini bensì quello di promuovere Mussolini attraverso lo sport, ciò che suona a conferma dell’importanza che le imprese dei campioni, particolarmente eclatanti in quel periodo, avevano assunto. La vanità di Mussolini imponeva ai suoi agiografi di differenziarlo anche rispetto a quelli, poiché se ai campioni si chiedevano dolore e sacrificio, Mussolini – del quale veniva sottolineata la facilità con la quale si produceva in uno sforzo atletico – si sottraeva anche a tale passaggio. La sua figura, pertanto, acquisiva contorni più divini che eroici.

Tale era il martellamento quotidiano sull’atletismo mussoliniano che la relativa risonanza pervenne anche all’estero e, pur con qualche ripulitura, godette un certo credito. A Cambridge, negli anni venti, gli studenti si compiacevano di seguire lo stile virile del leader italiano e diversi giocatori di rugby e vogatori, per un omaggio non sappiamo quanto apprezzato dall’interessato, chiamavano i loro terrier «Musso».

Nei fatti, Mussolini si manteneva in forma mangiando poco e facendo lunghe passeggiate, e aveva un fisico possente e ben sollecitato ma come sportivo era al massimo discreto. Si faceva fotografare con gli sci ai piedi sul Terminillo, talvolta a torso nudo, ma sempre immobile perché non sapeva sciare. Nuotava a lungo ma faticando per tenere la testa a galla; in compenso era bravo nell’equitazione, anche se non quanto mostravano le foto che, scattate sapientemente dal basso, trasformavano in montagne ostacoli di poche decine di centimetri. Era uno schermitore impostato in maniera scolastica tuttavia corretta ed effettivamente dedicava un’oretta della sua giornata a una qualche attività fisica, più perché convinto del beneficio per la salute che per passione. Scoprì solo un amore per il tennis, sbocciato tardivamente e a onta del fatto che giocare bene a tennis non fosse né particolarmente virile, né prodigioso, tant’è vero che proprio della sua attività atletica prediletta fece poca pubblicità. Cominciò a 57 anni, nel 1939, e chiamò a villa Torlonia alcuni allenatori, tra i quali il giovane Mario Belardinelli, che negli anni della repubblica sarebbe diventato il più bravo tecnico italiano e il maestro di Panatta. Giocava al mattino d’estate e alle due del pomeriggio d’inverno. Se era brutto tempo, la moglie Rachele, preoccupata che si buscasse un malanno, pregava i suoi allenatori di non farsi vedere. Aveva uno stile irruento ma un discreto diritto, che usava per tutto il campo anche spostandosi lateralmente, assecondato dalla compiacenza degli allenatori. Di rovescio non colpiva mai, piuttosto lasciava andare la palla. Una volta Belardinelli provò a colmare questa lacuna. «Duce, è il caso che lavoriamo un po’ sul rovescio». L’altro lo fulminò con lo sguardo: «Noi tireremo dritto» soggiunse.

Il problema erano le partite. Per autorizzare qualcuno a giocarci e a batterlo non sarebbe bastato nemmeno il via libera del Gran consiglio del fascismo. Così il «primo sportivo d’Italia» accettava di contare i punti solamente con il figlio Romano. Anche perché arbitrava Eraldo Monzeglio, calciatore della nazionale che all’amicizia strettissima con la famiglia Mussolini dovette più di una convocazione in azzurro, e informatore dell’Ovra, la polizia segreta del regime. Monzeglio chiamava buone al duce palle che erano fuori di tre metri, suscitando la stizza del quattordicenne Romano. Che una volta, non potendone più, sbottò verso il padre: «Oh, qui te danno sempre ragione perché siamo in Italia e te sei il Duce; se stavamo in Inghilterra ed eri Chamberlain, col cavolo che vincevi!».

A fronte di un capo del governo atleta era pensabile che gli altri gerarchi sprofondassero in una vita sedentaria? Starace decise di no. E nel 1938 comunicò che «in occasione del rapporto che si terrà provvisoriamente a Roma i componenti del Direttorio nazionale e i Segretari Federali dovranno sostenere tre prove di carattere sportivo: una di salto radente al trampolino, una di equitazione e una di nuoto. Nelle prove di salto radente saranno superati ostacoli di varia natura, come siepi, carri armati, cavalli isolati e in pariglia. Anche il salto nel caratteristico circolo formato dai moschetti con le baionette sarà compreso nella prova». Quest’ultimo esercizio per Starace rappresentava già un compromesso, perché la sua idea originaria era quella del salto nel cerchio di fuoco. L’alzata di genio fu derisa dai gerarchi, che pure erano abituati alle idiozie di Starace. Ma è possibile che il dissenso derivasse, più che dal mantenimento di un minimo senso critico, dalla poca voglia di saltare le siepi. Starace, coerentemente, avrebbe sempre conservato la convinzione dell’indispensabilità dell’esercizio fisico. Quando, caduto in disgrazia all’epoca della repubblica sociale, venne incarcerato per un periodo, passò il tempo in cella impegnandosi in un centinaio di flessioni al giorno.

Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.

Libro esaurito nelle librerie, presto sarà possibile scaricarlo gratuitamente da questo sito
Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2021-04-21T14:06:51+01:0031 Marzo 2017|Storia e storie dello sport in Italia|

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