La dignità

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Il record del mondo pare appartenga a un australiano che ha lanciato un nano a nove metri e quindici di distanza. Il nano viene imbracato con un’imbottitura e munito di casco protettivo,

dopodiché il giocatore lo afferra per le maniglie dell’imbracatura e lo scaglia verso un materassino. Ma una ventina d’anni fa, in Francia, il sindaco di un paesino in cui stava prendendo piede il lancio del nano decise di proibirlo. Fu presentato ricorso alla Corte Amministrativa di Versailles, la quale ritenne in effetti che “uno spettacolo del genere violi il principio della dignità umana in quello che è il suo scopo fondamentale”. La battaglia giudiziaria proseguì fino al Consiglio di Stato, e poi dinanzi alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. La cosa strana è che a combatterla con vigore non erano i giocatori, ma il nano Manuel Wackeneim: a lui non disturbava affatto di essere trattato come un giavellotto e in qualche modo ridicolizzato (ma anche reso effervescente, e forse remunerato, co-protagonista, delle serate a Morsang-Sur-Orge). Le domande affiorano molteplici: la mia dignità appartiene solo a me o a qualcun altro? Posso essere costretto alla dignità? E soprattutto: in cosa consiste la dignità?

 

Benché persone, documenti pubblici e costituzioni amino richiamare la dignità, il concetto è molto scivoloso e sconta il radicale rovesciamento di significato che ne ha accompagnato la storia. Nella tradizione classica la dignità coincideva con l’onore, e riguardava soprattutto le persone che occupavano una posizione prestigiosa. Di quel tipo di dignità è rimasta traccia quando diciamo che qualcuno è degno della posizione che occupa, ma è chiaro che la dignità significa ormai una cosa differente, e che la trasformazione deriva proprio dalla separazione tra onore e dignità. Della difesa dell’onore rimangono numerose tracce, legislative e sociali: nonostante nelle cause di diffamazione molti tribunali scrivano che è stata “lesa la dignità”, nella diffamazione è sempre in gioco una violazione dell’onore, cioè la compromissione di una persona agli occhi degli altri. La lesione della dignità, anche quando si svolge in pubblico, va invece a colpire un sentimento intimo della persona. Potremmo dire che la dignità è l’onore verso se stessi, che però è una formula a rischio di confusione. Se, contro le mie intime ambizioni, non venissi ammesso a un corso esclusivo di Harvard o alla finale di X Factor, o mi ritirassi al momento di sostenere la prova, sarei stupido se pensassi di aver perso per questo la mia dignità. La dignità è la difesa di qualcosa di essenziale e profondo: eppure, chi è, fuori di me, il giudice di quel che per me è essenziale e profondo? Siccome la dignità è quel nucleo basilare dell’umano che abbiamo in comune con gli altri, essa risponde a questa strana prerogativa: conta solo perché la sua perdita offende interiormente il singolo ma non spetta completamente al singolo stabilire che è stata compromessa la sua dignità.

Photo by Andrew Dunsmore / Rex Features ( 118811C )

Una delle differenze più profonde fra Tolstoj e Dostoevskij è che le vicende dei personaggi, in Tolstoj, ruotano essenzialmente intorno all’onore mentre le vicende dei personaggi di Dostoevskij chiamano in causa specialmente la dignità. Ma siccome vasto come la steppa sarebbe muoversi dentro le trame di questi grandi scrittori, richiamerò quale illustrazione letteraria della distinzione tra dignità e onore uno storico regista cinematografico. Va premesso che negli ultimi anni il cinema di cassetta si focalizza molto sull’onore (l’eroe compie azioni eccezionali che gli valgono un riconoscimento pubblico), mentre molto cinema d’autore è un’esplorazione della dignità (cosa sono disposti a fare i protagonisti per non perdere la stima di sé?).

 

Prima che il grande schermo conoscesse una radicale separazione tra i due filoni, il grande regista americano Frank Capra fu abilissimo a rappresentare congiuntamente sullo schermo onore e dignità, mostrati in quella che a volte diventa un’irriducibile alterità. Nel film Signora per un giorno, e poi nel remake Angeli con la pistola, Annie è una donna newyorkese che si è ormai spogliata della sua dignità sfiorendo nella mendicanza e nell’alcolismo. Un giorno la figlia, che lei aveva mandato a studiare in Europa e che è del tutto ignara della china intrapresa dalla madre dalla quale anzi riceve resoconti di un felice galleggiare nella mondanità, le annuncia il suo imminente arrivo per farle conoscere il fidanzato, un aristocratico spagnolo. La situazione pare disperata: vedere la madre in questo stato manderebbe di certo a monte il matrimonio di Annie. Un gangster e i suoi scagnozzi la aiutano a rimettersi esteticamente in sesto e ad allestire una messinscena di agio e signorili frequentazioni. Il travagliato successo dell’impresa rimanda pretendente e suocero soddisfatti in patria. Sono stati rassicurati su quanto volevano verificare: l’onore. Ma si tratta di due gonzi turlupinati. Quel che è importante è ciò che ha recuperato Annie: non l’onore che ovviamente si dissolve con la fine del teatrino, ma il rispetto di se stessa e dunque la dignità.

 

In un altro film di Capra, L’eterna illusione, il figlio di un arrogante magnate si innamora della nipote di Kirby, un bizzarro personaggio che ospita a casa un gruppo di persone accomunate dal desiderio di rispettare se stessi seguendo le proprie inclinazioni artistiche e pseudo-artistiche invece che affaccendarsi in attività più produttive. Quando il prepotente miliardario rischierà di perdere l’amore e la vicinanza del figlio, coglierà la vanità dell’onore che aveva accumulato in forma di denaro e chiederà consiglio al nemico Kirby (sin lì l’unico ostacolo all’acquisto di un gruppo di vecchie case da abbattere per riedificare) su cosa fare per ritrovarlo. Kirby lo convince a sedersi con lui per suonare insieme l’armonica, una passione che il miliardario aveva abbandonato in gioventù. Quella concessione alla parte più intima di se stesso, e l’umiltà di eseguirla sotto la direzione di un uomo che aveva considerato socialmente inferiore, costituisce il primo suo atto di dignità dopo molto tempo (e viene premiato). Se la dignità nella persona con pochi mezzi comprende la necessità di non abbassarsi sotto un certo limite (come per Annie), la dignità della persona con molti mezzi consiste nell’abbassarsi sotto il proprio status (ecco perché è l’opposto dell’onore).

L’eterna illusione sfiora un punto cruciale dell’idea di dignità: essere autonomi rende degni di sé. Secondo la bioeticista Ruth Machlin, anzi, l’autonomia rende completamente inutile che si parli di dignità. Ma, a parte che il concetto di autonomia non è meno ostico da fissare, è corretto semmai riconoscere che la dignità viene a mancare quando vengono soppressi alcuni profili essenziali dell’autonomia. Una delle angolazioni più note del rapporto tra autonomia e dignità è stato posta in luce da Kant con l’imperativo categorico che vieta di trattare un essere umano come mezzo invece che come fine.

Michael Rosen (autore di un buon saggio filosofico sulla materia, Dignità, pubblicato in Italia da Codice) specifica che lo facciamo continuamente, ad esempio servendoci di un autista per attraversare la città: e puntualizza che il senso kantiano è di non trattare la persona esclusivamente quale mezzo, come indubbiamente capita con o schiavismo. Pertanto, tutte le volte che un essere umano avverte di essere ridotto a oggetto ha ragione di ritenere lesa la sua dignità.

Ma se la dignità, almeno in parte, coincide con l’autonomia si pone un problema: la mia dignità potrebbe consistere nella scelta autonoma di perdere la dignità. Ecco che il nano francese apparirebbe vessato più dai giudici che dai suoi lanciatori. Bisogna però fare due osservazioni.

 

La prima è che le grandi riforme sociali sono state distribuzioni di dignità in luoghi tradizionalmente deputati a offenderla: l’abrogazione della schiavitù, la riforma delle carceri, la normativa sulle fabbriche o quella a tutela dell’emancipazione femminile. Perciò, tutte le volte che qualcuno palesa la propria soddisfazione per la perdita di dignità si deve pensare che sia spinto a ciò dal cattivo funzionamento dell’organizzazione sociale e delle relazioni umane. Potremmo accettare che qualcuno costruisse un piccolo campo di concentramento per esservi rinchiuso da aguzzini disponibili? Priverebbe, noi che lo consentiamo, di un pezzo della nostra dignità.

 

La seconda è che la perdita di dignità di qualcuno mette spesso in pericolo la dignità di coloro che appartengono alla sua stessa categoria. Questo è lampante nel caso dell’operaio che accetta di lavorare per venti ore al giorno. Nel caso del nano la sfumatura è più sottile, ma è innegabile che la ridicolaggine cui si espone il nano in volo “demolisce quella considerazione che le piccole persone stanno provando a ottenere” (così si è espressa l’organizzazione di “categoria” negli Stati Uniti, paese nel quale il fenomeno pure ha una sua diffusione). In verità, che qualcuno non si possa comportare in un certo modo perché offende la dignità della sua categoria è una china pericolosa e spesso ipocrita della quale tendono all’abuso, ad esempio, gli ordini professionali. Diciamo che è un argomento spendibile, salvo casi eccezionali, solo quando si parla di categorie deboli.

Da alcuni mesi quasi ogni mattina, nella parte finale della strada che percorro per arrivare in ufficio, c’è un giovanotto di colore inginocchiato per chiedere la carità, che cerca di incrociare lo sguardo dei passanti muovendo la manina e dicendo “Ciao”. Non è il primo mendicante che si inginocchia: per la mia esperienza però è il primo apparentemente in buona salute e di giovane età, persino vestito in modo relativamente normale, che non porta minimamente impresso il segno di qualche sofferenza fisica o di un particolare turbamento interiore. Non ho mai visto nessuno, non dico dargli una moneta, ma neppure rivolgergli uno sguardo. Da tempo coltivo il desiderio di dirgli di alzarsi, per favore, e a quel punto di dargli una moneta, e spiegargli, nei limiti della comunicazione possibile (ignoro se conosca un’altra parola oltre “ciao” o “signore”), che non darei mai la moneta a qualcuno che si è inginocchiato, perché non voglio incentivarlo a rimanere in quella posizione umiliante, e suggerirgli che probabilmente è per quella ragione che le persone lo schivano. Poi prevale un istinto più pavido, il timore di essere invadente e incompreso, o di instaurare una forma di legame dagli esiti imprevedibili o di far scattare un para-inginocchiamento nell’alzarsi di colpo alla mia vista, come un cane che si rizza sulle zampe anteriori ed esige il premio. E così mi associo a quel passeggio che accelera, devia, si stringe contro il muro, finge distrazione. Se non la categoria dei mendicanti, quella degli immigrati potrebbe insorgere, con la stessa indignazione di quella dei nani, adducendo anch’essa che il giovane in ginocchio rovina l’immagine dignitosa dei tanti che conservano rispetto di sé, e anche per questa via sperano di ottenerlo dal prossimo. Ma la categoria dei nani ha acquisito il riconoscimento collettivo di dignità, che in questo momento storico pare invece una conquista problematica per gli immigrati. Per cui uno in più che s’inginocchia non cambia. Qualche animo magnanimo dirà anzi che almeno non ruba.

 

Schiller considerava la dignità una qualità estetica, e precisamente la “tranquillità nella sofferenza”: un concetto che la cultura tedesca ha assimilato dal grande storico dell’arte Johann Joachim Winckelman, il quale l’applicò al gruppo scultoreo del Laocoonte (in cui “il dolore del corpo non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto e nell’atteggiamento”).

Ma non direi che è solo una questione estetica. La dignità si addice a coloro che sono in difficoltà, come dicevo pocanzi degli immigrati, o come i disabili, che ne hanno fatto un caposaldo della loro identità, e offerto lezione più che ogni altro. La difficoltà, tuttavia, può colpire chiunque, specie quando si avvicina la morte. La dignità del morire, tuttavia, non include solo di sopportare la malattia con animo quieto ma pure il diritto di non tollerarla quando sta alterando gravemente quelle caratteristiche che – dicevamo all’inizio – coincidono con il nucleo basilare dell’umano che abbiamo in comune con gli altri, o compromettono ciò che fa di qualcuno il suo essere se stesso. La dignità del morire esige che si possa smettere di lottare per la vita quando l’ombra della morte prossima rende problematico riconoscersi. Il riconoscimento di sé è il gradino antecedente alla stima di sé.

Ci sono campi in cui la dignità è maggiormente di casa: il lavoro, ad esempio (anche se Nietzche considerava la dignità del lavoro un’impostura retorica). Altri in cui rimane fuori dalla porta, come nell’amore. La manifestazione dei sentimenti, nella sfera intima, non dovrebbe essere mai soffocata dalla compostezza e dal pudore della dignità. Per chi si ama la dignità è un esercizio a conduzione familiare. Però quando un rapporto affettivo degenera nella sopraffazione, quel che si dovrebbe constatare, traendone le conseguenze, non è tanto che qualcuno perde la dignità ma che è andato perduto l’amore.

 

La dignità è l’eroismo dei miserabili (come sopra: che si trovano in una condizione miserrima, non per forza chi vive nella marginalità sociale). Qualche volta è la via che conduce all’eroismo inteso in senso classico. Sempre spetta alla società non negarla, nemmeno a un individuo come Totò Riina (fu casi recente di opinioni discorsi il relativo provvedimento della Cassazione).

I pericoli per la dignità nascono sempre in contesti in cui qualcuno richiede: che si tratti della proposta da parte della persona più forte, che solo uno sforzo di dignità può indurre il debole a respingerla, o della domanda della persona debole, quando si ostina a rimbalzare contro il silenzio sprezzante e moralmente spregevole dell’interlocutore.

Il modo che una persona ben inserita ha di perdere la sua dignità è di corteggiare chi ha più potere di lei. Siccome c’è (quasi) sempre qualcuno più potente, è un problema che riguarda i potenti stessi.

Tra le persone potenti o quelle ben inserite si registrano diversi casi di persone che urlano: “La mia dignità non è in vendita”. E poi risultano propense a ragionare di un affitto.

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