Simboli religiosi nello spazio pubblico: è davvero giusto rimuoverli?

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Due settimane or sono ha fatto scalpore la pubblicità sul poster di un supermercato Lidl che prendeva come sfondo una fotografia del paese ligure di Dolceacqua, orbata tuttavia delle croci sui campanili, come in un esperimento digitale di realtà diminuita, per non offendere la sensibilità dei diversamente credenti. Poco credibile è parsa la giustificazione addotta dalla Lidl sull’occorrenza di un casuale incidente causato da una foto pescata da un data base, visto che già in Grecia la marca di supermercati aveva ritenuto di espungere le croci dalla chiesa di Santorini, in modo che apparisse come un innocuo esempio di estrosa architettura urbana.

L’episodio, inevitabilmente, richiama alla mente quello ancora più eclatante di circa un anno fa, quando il governo Renzi (questi lamentò poi lo zelo ottuso di un funzionario) fece coprire le statue classiche dei Musei Capitolini

 perché l’esibizione genitale non turbasse il presidente iraniano Rouhani, pregiudicando- si sa mai- l’export delle aziende italiane verso quel paese (piccola digressione: è il contesto che ci illustra il significato di un episodio.

Se Duchamp avesse disegnato la barba alla Gioconda anziché i baffi in un ipotetica visita di un presidente iraniano il suo non sarebbe stato un gesto artistico ma politico, ed egualmente Renzi e Rouhani se si fossero visti alla Biennale anziché agli Uffizi sarebbero da intendersi come protagonisti di una performance).

 

Premesso che se volessimo approfondire la definizione di “sacro”dovrei chiedervi la pazienza di leggere qualche milione di righe, considererei ancora valida la tesi di Durkheim per cui “la divisione del mondo in due domini che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro e l’altro tutto ciò che è profano è il carattere distintivo del pensiero religioso”. La secolarizzazione, intesa come parziale sgombero dall’autorità dei costumi religiosi nella sfera pubblica condivisa, ha subito un deciso arresto in questi anni: o meglio, per nostro eurocentrismo, avevamo archiviato la questione guardando esclusivamente al cristianesimo. La dottrina islamica, specialmente attraverso il flusso delle migrazioni, ha riportato in auge la questione, per lo più sintetizzandola nella facoltà di esporre simboli religiosi.

Che il dibattito non abbaia ancora raggiunto uno stadio soddisfacente è dimostrato dalla tragica comicità dei due episodi sopra riportati, che di quel dibattito sono caricature.

Si va oltre la qualificazione dell’oggetto sacro nel luogo pubblico passando a rivendicare come “sacro” lo sguardo dell’osservatore religioso, che non dovrebbe subire la violenza di incappare nel “profano”, costituito da un sacro diverso o addirittura da un oggetto che non ha nulla a che vedere con la religione.

Come a dire: non è sacro quel che è sacro ma è profano ciò che spiace.

 

Sul piano giuridico la presenza dei simboli religiosi nei luoghi pubblici è una spina nel fianco. E’ un problema non avvertito negli Stati Uniti, che financo sul dollaro hanno impresso “In God We Trust”. In Europa, però, la sovranità si è sviluppata come teologia alternativa a quella religiosa. In Francia questo ha condotto, per via legislativa, a una vera caccia al simbolo, mentre il resto dell’Europa si è posto in modo più liberale prima che l’immigrazione ponesse il tema all’ordine del giorno.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è trovata in difficoltà quando, dopo avere respinto i ricorsi delle alunne o insegnanti musulmane cui la Francia o la Svizzera vietavano l’ingresso scolastico con il chador ha poi ammesso il diritto delle scuole italiane, o dei tribunali, di esporre il crocifisso ed è dovuta ricorrere ad un’argomentazione non tanto convincente, distinguendo tra segni esteriori forti (caratterizzati da un’aggressiva vocazione al proselitismo) e simboli passivi, fra cui rientrerebbe il crocifisso, che non persegue alcun intento di indottrinamento. Un cattolico si rizzelerebbe ( e qualcuno si è rizzelato): come, Gesù si è fatto crocifiggere ed è pure un simbolo passivo? La Corte europea ha inteso il termine allo stesso modo della Corte Suprema americana, che ha definito simbolo passivo la bandiera nazionale esposta nelle scuole, affermando che non lede la dignità e i sentimenti degli stranieri che frequentano gli istituti, a condizione che non prenda vita in una pratica, come sarebbe se si chiedesse a tutti di omaggiarla. Lo stesso crocifisso, nel nostro paese, ha ormai una biografia scollegata dalla devozione, e se questo non valesse per il crocifisso varrebbe certo per il presepe che pure alcune scuole hanno ritenuto di eliminare in nome della parità di culto. Un simbolo religioso può significare altro. E’ vero però anche il contrario: un oggetto che normalmente è altro perde la sua identità utilitaria se viene usato come simbolo religioso. Il caso curioso che si è trovata ad affrontare la Corte suprema canadese riguardava il diritto di un ragazzino sikh di custodire con sé, a scuola, il kepar, ovvero un’arma da taglio. La Corte ha ritenuto che il ragazzo fosse nella ragione a rifiutarsi di portare un surrogato in legno, che sarebbe stato un giocattolo, e affermato che l’uso rituale del kepar rende altamente improbabile che esso venga adoperato per procurare lesioni. Dunque, in una prospettiva diversa, la “sacralità” non solo non è di intralcio ma rende plausibile quel che sarebbe proibito, rimanendo impensabile che il figlio di un arrotino porti con se una lama a scuole per allenarsi ad affilarla durante l’intervallo. Ma vale proprio per qualsiasi simbolo? Potrebbe un cinese aderente al movimento spirituale di Falun Gongl presentarsi a scuola con la svastica sul cappotto per il fatto che si tratta di un simbolo delle sua religione, che ha recuperato un’antica tradizione mongola?

E cosa dire, tuttavia, dei simboli religiosi che consistono in un segno fisico, come la barba del rabbino? O della testa rasata di un buddista? Proprio la marcatura fisica dà conto della sconvenienza di poggiare, per ammetterla o per vietarla, dell’intenzione. “Perché ti sei rasato?”. Ma non è agevole nemmeno con l’abbigliamento. “Perché hai il capo coperto” “Perché ho l’alopece e i genitori abruzzesi all’antica” “Allora entra pure”.

La querelle non si placa nemmeno con i morti, ed è ovvio data le centralità del rito funerario per qualsiasi religione. A Casalecchio di Reno hanno tolto le croci dall’ingresso del cimitero, sempre per la parità di culti. Ma il visitatore del defunto potrà farsi il segno della croce davanti alla tomba del suo caro o il gesto dovrà intendersi come uno sberleffo al vicino?

 

La diatriba sui simboli religiosi sconta un’impostazione antipatica, da qualunque parte la si osservi, perché determina una tirannia, a volte della maggioranza, a volte della minoranza. Pensare che in Italia i cristiani debbano sbaraccare le loro croci per ragioni di ospitalità è sbagliato quanto pretendere che i musulmani si facciano i loro riti dentro casa, perché se no ci impressioniamo.

Gli unici ragionevoli ostacoli alla libertà religiosa sono quelli che mettono in pericolo l’ordine pubblico o altre libertà fondamentali o precludono lo svolgimento di doveri previsti dalla legge o liberamente assunti per contratto. Per il resto, tra le opzioni di toglierli tutti o lasciarli tutti, la seconda ipotesi è quella che risponde meglio alla libertà di culto difesa dalla costituzione, ed è anche un buon modo di abituare le persone a interagire in un mondo aperto che pare destinato a metterli in costante contatto. Quel che da ciascuna religione dobbiamo pretendere è la tolleranza, e al minimo un religioso spinto di sopportazione quando è un altro a manifestare il suo culto. E’ vero che alcuni simboli sottintendono la lesione di qualche valore che ci è caro, come per le donne “velate” ma provare a integrare nella comunità più ampia la vittima della lesione è più intelligente che escluderla, anche dal punto di vista della sua emancipazione (vale anche come prevenzione per le derive fondamentaliste, pur se non con matematica esattezza).

Personalmente preferirei che le persone non fossero morbosamente attaccate ai simboli religiosi. Però se oggi sono in tanti a privare disagio quando ne vedono uno per strada, e poi tirano un sospiro di sollievo quando incontrano (finalmente un ragazzo a modo!) uno con la maglia firmata significa che qualcosa nella nostra civiltà non ha funzionato.

Per questo immagino un Voltaire che rinasca e dica: Io non credo nella divinità ma sono disposto a pregarne una se questo può servire a far sì che tu preghi la tua.

Di |2020-09-11T15:16:27+01:0028 Ottobre 2017|Limite di velocità|

2 Commenti

  1. Susanna Cammisa 02/11/2017 al 14:22 - Rispondi

    Quanto sia fondamentale ,in un mondo dove la velocità ha cancellato il piacere di “soffermarsi”, la capacità di analisi e sintesi su argomenti che toccano il nostro quotidiano, con spirito critico e costruttivo!

  2. Emma Gasperi 29/10/2017 al 07:21 - Rispondi

    Al rigore del suo argomentare: chiarissimo e stringente!

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