Syd Barrett

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“Wish you were here!”. Tanti amanti di Syd Barrett e del suo mito lo staranno pensando visitando la mostra romana dedicata alla grande band. Un modo per indennizzarne la memoria, e un’occasione ghiotta per chi non lo conosce, potrebbe essere l’ascolto di quei gioiellini che furono i suoi album da solista, incisi faticosamente nel 1970. Giusto cinquant’anni fa, a fine gennaio del 1968, i Pink Floyd dimenticarono di andarlo a prendere prima di un concerto e pochi mesi dopo lo misero definitivamente alla porta. Era già da tempo che si portavano dietro il chitarrista di scorta, ormai divenuto titolare, David Gilmour, vecchio compagno di Barrett negli studi di arte a Cambridge. Obiettivamente la presenza di Barrett era diventata insostenibile e dal vivo si limitava alla scordatura del suo strumento, che fra tutte le mattane non era nemmeno la più plateale. Ai Pink Floyd, di cui fu il fondatore, lasciò tutto: la creatività dei primi due dischi, il nome della band che aveva inventato, il senso di colpa per averlo scaricato, l’ossessione di quell’esperienza che divenne la principale scaletta compositiva, da Dark Side of The Moon a The Wall, passando ovviamente per Wish You Were Here.

 

Quando Syd si trovò in difficoltà con il produttore, che non riusciva in alcun modo a governarlo nel suo disco da solista, i Pink Floyd tornarono ad affiancarlo e consentendogli di completare entrambi gli album, il primo dei quali, Madcap Laughs, con un titolo che ammiccava alle sue paranoie e che non aveva scelto lui. La copertina lo ritrae accovacciato sopra il pavimento a strisce che aveva dipinto nella sua nuova casa, le foto interne ritraevano la ragazza eschimese che frequentava, come dovesse sperimentare se in giro c’era qualcosa di più freddo del gelo che sentiva dentro.

 

Se si paragona ai dischi dei Pink Floyd, specie ai lavori successivi, Madcap Laughs è un’opera per sottrazione, per regressione quasi, composta di armonie elementari cucite dentro filastrocche surreali intrise di una marcata vena folk. Chi cerca nelle opere degli artisti la pedante conferma della loro biografia, anche se le elogia, descrive quelle canzoni come specchio del suo disagio mentale e guastate da una certa frettolosità collettiva nell’archiviare la pratica di beneficienza. Eppure l’andatura sghemba dei ritmi, le stonature, la matrice low-fi della registrazione (come vent’anni dopo si sarebbe chiamata), le interruzioni del cantato e le ripartenze sarebbero state descritte negli imitatori che seguirono quali ingegnosi istrionismi. Gli stessi testi allitteranti e bislacchi, ma incredibilmente poetici (le prime due canzoni, nel 1965, le aveva del resto composte attingendo a James Joyce ed Edward Lear, il celebre versificatore dei limerick), non erano affatto malinconici e rancorosi, pur ruotando intorno ai concetti di delusione e abbandono, stemperati emotivamente nel dileggio di ciò che contraddistingueva il pop: in particolare le rimate frasi zuccherose e le groupie che ronzavano intorno ai cantanti (incluso lui, che non si tirava indietro), e insomma una satira schietta a garbata del rapporto tra amore e musica rock.

 

Naturalmente non si deve scambiare un fascio di percezioni interiori con un intento programmatico. La musica di Barrett è un poema dell’incompiutezza ostentata, scandita da ritmi che si divertivano a smentire quel che era stato appena intrapreso. Così lo dipinse (oltre che come proto-punk: del resto nel 1992 gli sarebbe stato proposto di affiancare i Sex Pistols) anche Robert Wyatt, che partecipò alle sedute di registrazione di Madcap Laughs: uno stile che è di un quadro mai completato. Fu tra i primi postmoderni (anche questo non lo sapeva, visto che Lyotard inventò il termine dieci anni più tardi) e coltivò un’estetica del frammento, a volte anche dentro un unico pezzo. In questo senso Madcap Laughs appare, nella sua aggraziata sgangheratezza, un’opera meglio calibrata del successivo Barrett, che pure fu più curato. Sempre entro certi limiti, però, e quindi con una perdita di spontaneità. Fu come se costringessero Barrett a indossare una giacca sopra il pigiama (e se proprio volevano, avrebbero dovuto provarci prima, nel 1967, quando davvero in una settimana di tournée Syd scese sul palco in pigiama). Vanamente cercheremmo gemme all’altezza di Terrapin, Golden Hair o She Took a Long Cold Look, che ornavano il primo album.

 

Tra quelle che aspirano a essere rivalutazioni a posteriori circola l’idea che Roger Barrett (il suo vero nome) fosse alla fin fine una persona quasi normale. In fondo facendogli torto, perché è difficile negare, al netto dell’abuso di droghe, che avesse qualche rotella fuori posto, e che la forza della sua arte fosse quella di ricomporre per compensazione un temporaneo e miracoloso equilibrio. Come molte altre stelle del rock non resse lo stress dello star system, ma se la strada di altri fu il suicidio (Nick Drake, ad esempio, nel quale pure si ritrovano certe sonorità barrettiane) egli optò per il difficile compito di sopravvivere al suo mito, in una spirale cieca in cui quella stessa sopravvivenza faticosa nell’ombra alimentava il mito. Da quell’ombra uscì assai poco: una volta per rilasciare un’intervista al giornalista che se lo era arruffianato riportandogli dei panni sporchi che si era lasciato indietro prima di uno dei suoi traslochi, un’altra per presentarsi, pelato, obeso e con una borsa della spesa, proprio alla registrazione che i Pink Floyd stavano facendo in studio di Shine on You Crazy Diamond, come fosse un veggente. Stroncando altresì la vena malinconica del brano a lui dedicato, che ascoltò lavandosi i denti e parlando una volta sola per rispondere alla domanda di Roger Waters su cosa ne pensasse: “Suona un po’ vecchio”. Forse fu un giudizio ingeneroso. Però Madcap Laughs suona certo eterno.

Di |2020-09-11T15:16:21+01:009 Febbraio 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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