Recensione del film “I segreti di Wind River”

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Il mondo culturale è sempre più attratto da un’America lontana da quella delle metropoli, e all’interesse sociologico verso la provincia del sud – quella che noi ignoriamo e che ha determinato la vittoria di Trump – si affianca l’esplorazione narrativa della frontiera – quella che ignorano gli stessi americani. Il suo fondatore letterario è naturalmente Cormac McCarthy, ma Taylor Sheridan ha concluso con “I segreti di Wind River”, così come McCarthy, un analoga ma cinematografica “trilogia della frontiera”: e tanto gli premeva quest’ultimo episodio che, dopo essersi “limitato” a sceneggiare gli altri due (Sicario e Hell or High Water), ha voluto completare il proprio percorso artistico, intrapreso con una ventennale carriera d’attore, esordendo alla macchina da presa in modo assolutamente convincente. Sheridan ha rispettato quello che sin qui si può definire il codice espressivo rispettoso della “narrativa di frontiera”, ovvero una certa asciuttezza di scrittura e un forte rapporto di tensione tra la dimensione selvaggia dello spazio e il perimetro circoscritto delle individualità, condannate all’irresoluzione della coscienza e a una brutalità primordiale.

 

L’ambientazione è nel Wyoming, in una di quelle riserve indiane immerse nel nulla dove i pellerossa sono stati sradicati (deportati, in un certo senso) e abbandonati senza altre opportunità che non siano l’alcool, la droga e la sfida rituale a quei pochi bianchi che rappresentano la legge.

Lì, dunque, a Wind River, Cory, un cowboy cacciatore di predatori che minacciano gli allevamenti, ritrova nella neve macchiata dal sangue il cadavere di Natalie, che ha percorso chilometri scalza sotto la tempesta e a meno di venti gradi per sfuggire a qualcuno che già l’aveva stuprata. Cory rivive dolorosamente la sua personale esperienza, poiché anni prima sua figlia, che di Natalie era la migliore amica, appena sedicenne era stata ritrovata a venti chilometri da casa, più o meno nelle stesse condizioni e senza che fosse mai stato possibile risalire all’accaduto e ai responsabili. L’FBI manda sul posto una giovane agente, Jane, che di solito farebbe base a Las Vegas e non ha nessuna cognizione tecnica, ambientale e nemmeno di abbigliamento per cavarne qualcosa di buono. Va detto che l’eccessiva stereotipizzazione fisica del personaggio, anche nella scelta dell’attrice, è inizialmente un punto debole del film, che tuttavia la buona interpretazione di Elizabeth Olsen, e l’evoluzione interiore dell’agente che interpreta, fanno infine perdonare. Mancano per fortuna le interazioni del tipo “ma chi ci hanno mandato?” e ogni tipo di ammiccamento sessuale. Cory, per placare i suoi demoni interni, per promessa all’amico che è il padre di Natalie e infine per un duplice istinto, quello della giustizia e quello della caccia, aiuta Jane.

 

L’abbinamento dei due protagonisti produce una moltiplicazione di generi: la partenza è quella del giallo, che però si decifra troppo facilmente appena sulla scena compaiono i possibili responsabili. L’intensità è quella incalzante del thriller. Ma la vera estetica rimane il western, e per questo è corretto dire che il film riproduce il punto di vista di Cory. Del western estremo sono presenti, oltre alla catartica carneficina conclusiva, la chiave intersoggettiva della costante prova di forza e il perpetuo interrogativo esistenziale sulla giustizia fra gli uomini, che Sheridan traduce con un certo pessimismo nella sfrontata equiparazione tra uomo e animale. Registicamente, Sheridan si mostra molto felice nell’alternanza tra i campi lunghi monocromatici delle montagne e la claustrofobia degli interni, dove l’inquadratura, con molta sobrietà, quasi sempre sceglie dettagli e rinuncia programmaticamente all’esaustività dell’immagine. Un altro grande merito è quello di focalizzarsi senza mediazioni sulla violenza, evitandone tuttavia la ridondanza pornografica e il serialismo sadico-splatter. La sceneggiatura, essenziale, realistica, esattamente calibrata sulle “competenze” di relazione di ciascuno, distilla anche qualche bonus track rispetto al genere spigoloso: che, per chi perde una persona cara, accettare il dolore sia l’unico modo per tornare a incontrarla nel ricordo probabilmente lo sappiamo tutti, ma di rado l’avevo sentito dire con tanta tenera chiarezza.

 

Nella buona prova collettiva di tutti gli attori certo spicca Jeremy Renner, sottratto per una volta a ruoli più leggeri e favorito (ma anche onerato) dal dover coincidere con uno dei personaggi umanamente più coinvolgenti del cinema d’azione di questi ultimi anni (e che certamente sarebbe piaciuto a Clint Eastwood). Nick Cave e Warren Ellis si confermano cesellatori musicali ineguagliabili dei grandi spazi western solcati da un’umanità dolente (già ad esempio in The Assassination of Jesse James e The Proposition)

 

Il film ha anche una storia di produzione particolare. E’ stato sostenuto, oltre che da tribù indiane, anche da Weinstein, ciò che oggi sembra grottesco in un film che si sofferma sulla violenza inflitta alle donne (è una realtà di cronaca che la sparizione femminile nelle riserve abbia un tasso molto elevato, e che spesso nemmeno venga denunciata per disistima verso l’autorità): è la ragione per cui Sheridan ha poi comprato la sua quota ma anche, purtroppo, la ragione che ha allontanato I Segreti di Wind River (dopo un premio ottenuto a Cannes) da un meritato affaccio sulle candidature agli Oscar.

 

I segreti di Wind River

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:16:17+01:0020 Aprile 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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