“Prisoner 709” di Caparezza.
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Michele Salvemini, in arte Caparezza, è il miglior paroliere italiano. Non solo nel senso di più bravo scrittore di testi per le canzoni. Mettiamo in pista tutti i mestieri in cui l’uso della parola è decisivo: scrittore, retore politico, giornalista, seduttore televisivo, seduttore notturno, formatore nel coaching, poeta, drammaturgo, logopedista, interprete, attaccabottone, ambulante col carretto, membro dell’accademia della crusca, penalista, rappresentante, pataccaro, cantante. E’ impossibile farli competere tutti in una classifica assoluta. Però, se stiliamo una classifica relativa di efficacia e qualità delle parole rispetto all’obiettivo è difficile trovare qualcuno produttivo e continuo come il cantautore molfettese.

Uno che da sempre, e sempre meglio, le parole le incastra, le addestra, le smonta, le accelera, al servizio di una costante e virtuosa allitterazione e con la capacità di giocare sul doppio e anche triplo senso.

 

Non si tratta, infatti, di un funambolismo verbale fine a se stesso. Caparezza tratta temi e affianca citazioni enciclopediste con continui rimandi tra cultura altissima e bassissima che avrebbero fatto felice Umberto Eco. Rimane da spiegare come mai venda tanti dischi considerando che il suo pubblico del senso di quelle citazioni, e soprattutto del senso che puntualmente deriva dalla loro combinazione, capisce, se va bene, il venti per cento. Per giunta Caparezza tiene in vita, a modo suo,  la tradizione italiana del cantautorato di impegno sociale, e anche questo non è tanto mainstream.

 

Le ragioni possono essere differenti. La politica tra i giovani non è di moda ma l’essere contro sì, e Caparezza, pur tutt’altro che populista (molto del suo sprezzo sarcastico è rivolto ai suoi stessi ascoltatori e alle loro ovattate vite digitali) consente, con quel mood dell’essere contro, di rielaborare populisticamente i suoi messaggi. Altra particolarità, del tutto letteraria: Caparezza usa spesso nei suoi testi il “tu” narrativo, e anche quando il racconto non è tanto onorevole per il raccontato prevale l’immedesimazione (in verità, una sorta di dissociazione: l’immedesimazione istintiva è attivata dal “tu” di chi è immerso nel flusso sociale descritto, e però che dal lato del “tu” ci siano tanti ascoltatori consente di deviare la critica sui tizi a fianco). Caparezza possiede una raffinata musicalità, quando vuole assai orecchiabile. E poi c’è quella sua parte rap, quella sì oggi mainstream: ma attenzione a non confondere la parte per il tutto, perché il Capa (per gli amici) era stato capace nell’album-gioiello Museica, tre anni fa, di evolvere verso uno stile musicale espressivamente più ricco e heavy metal, una miscela che grazie agli strappi, le sincopi, l’umorismo anche sonoro, l’assemblaggio zingaresco tracciava una spiccata parentela (fatte, è ovvio, le debite proporzioni) con il mood di Frank Zappa.

 

Il nuovo album “Prisoner 709” gioca ad essere criptico sin dal titolo (circolano differenti versioni sul significato), ma muta in senso apparentemente regressivo alcune prerogative del musicista. Il suono, assai percussivo e tribale, spizzica qua e là tra varie forme e generi (non mancano new wawe, prog, elettronica, industrial) ma più che ricercarne l’impasto abbozza e fugge, senza una trama complessiva se non quella rumoristica. Ai temi sociali si sostituisce un ripiegamento verso l’interno avviato dalla malattia dell’acufene che Caparezza ha contratto e peggiorato da due anni: l’acufene (oltre che l’argomento di un brano, Larsen, diventa il motore di una riflessione introspettiva sull’imprigionamento che avvia una matrioska di condizioni metaforiche, tra cui la claustrofobia e l’evasione, sullo sfondo di una più ampia e paradigmatica metafora malattia-guarigione e dell’esplicitazione del senso d’ansia che grava su un artista, preoccupato di restare imprigionato nel suo ruolo sociale.

 

Insomma, ad un ascolto più attento, si apprezza come il cantante affronti un tema teoricamente personale proiettandosi oltre se stesso: volontario o meno che sia, è un messaggio pedagogico da parte di un artista che non ama atteggiarsi a maitre à penser. Le riflessioni sul “carcerario” come entità fisica/metafisica (innestate dallo storico esperimento dello psicologo Philip Zippardo che formò due gruppi posticci di detenuti e secondini e ne studiò le relazioni nel gioco di ruolo) o il ricercato e intrigante parallelismo tra rap e psicoanalisi conducono l’esplosività delle rime verso un più meditato livello di profondità intellettuale. E anche la cupezza timbrica del disco trova una sua giustificazione estetica: Caparezza fa di ogni album un “concept” e in questo caso egli ha osato trasmetterlo anche all’architettura sonora. Il carcere e l’acufene richiedavano forse questo rumoroso e ossessivo rispecchiamento musicale (del resto il cd contiene una ghost track con i segnali della terapia per l’acufene). Chi rimpiange le solarità di Museica (un po’ io sono tra questi) può consolarsi con il potpourri dissacrante e self-help di Ti fa stare bene (perfetta hit radiofonica, con tanto di coretto femminile, leggermente vintage) o intenerirsi del  brano Una chiave che confronta (col citato tu narrativo) il Caparezza di oggi e il suo sé adolescente ( e che funziona eccellentemente anche immaginandolo rivolto a un moderno sé adolescente) o tuffarsi nella denuncia del velleitarismo sincretico e new age dell’offerte religiosa di Confusianesimo.

 

Caparezza

Prisoner 709

Una chiave

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:16:37+01:0029 Settembre 2017|Il Nuovo Giudizio Universale|

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