Ius soli, demagogie e diritto di voto. E se la cittadinanza fosse a punti?

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Metti che a tua moglie si rompono le acque durante una crociera, a dodici miglia dalla costa degli Stati Uniti. Beh, capace che il pargolo viene fuori dalla pancia e dice: “How are you?”.

Perché di diritto è cittadino americano. Non dico che sia un buon modello, però è interessante da sapere. E’ tipico degli stati imperialistici largheggiare nella cittadinanza: Caracalla, nel 212, estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti delle popolazioni conquistate. Quando invece la cittadinanza diventa questione spinosa, significa che c’è una chiusura etnica oppure una situazione economica collassata.

 

Perché in Italia la legge sullo ius soli sta spaccando il paese? potrebbe essere un buon interrogativo d’inizio. Ma dato che si gioca sulla pelle delle persone è forse opportuno partire da una domanda differente: vale la pena di rimanere infognati dentro una guerra ideologica?

La condizione giuridica dello straniero residente in Italia è assimilata a quella dei cittadini. Indennità di maternità, versamento dei contributi, possibilità di agire in giudizio, potestà sui figli. E così via.

Dato che gli extracomunitari godono degli stessi diritti civili degli italiani, il punto di discrimine è l’esercizio del diritto di voto. Quel che si verifica è che persone sottoposte alle leggi della repubblica e alle norme tributarie (il loro apporto rappresenta il 5% delle entrate totali) non possono dire la loro sulle regole e l’amministrazione che li governano. Includere questo problema nella questione dalla cittadinanza annega una questione pratica ed elementare di eguaglianza nel mare di una dispersiva retorica sulla condivisione dei valori. Alcuni comuni in passato (Genova e Venezia ad esempio) hanno cercato di rimediare con la concessione dei diritti amministrativi nelle elezioni locali, rintuzzati però dal Ministero dell’Interno in forza dall’interpretazione dell’articolo 48 della Costituzione, che pare richiedere il requisito della cittadinanza italiana per il voto. Nel frattempo, però, coloro che cittadini italiani non sono ma appartengono alla comunità europea sono stati ammessi al diritto di voto (dato che la legge comunitaria prevale su quella costituzionale).

Quand’anche fosse necessario modificare la costituzione, per affiancare alla cittadinanza il requisito della residenza per un certo periodo, concentrare gli sforzi su quella modifica purificherebbe il tema e costringerebbe gli antagonisti a prendere posizione dichiarata su una domanda molto diretta: ritenete che la vostra colf o l’operaio della vostra fabbrica abbiano diritto di votare al pari vostro o dobbiamo considerarli degli schiavi? E se non possono votare alle elezioni perché non privarli anche della possibilità di deliberare nelle assemblee condominiali e nelle scuole per la nomina dei rappresentanti di classe? Tutti gli altri argomenti utilizzati strumentalmente perderebbero ogni rilievo. Diverrebbe persino irrilevante la posizione di chi li vuole “a casa loro”. Tanto se stanno a casa loro non votano.

Esistono anche già disegni di legge depositati per la revisione costituzionale (e il primo fu stralciato dalla legge Turco-Napolitano, e decadde poi insieme alla legislatura). Sarebbe interessante ascoltare se chi si oppone alla legge sullo ius soli, o intende astenersi, sarebbe disposto, in cambio del ritiro del disegno di legge, ad assumere l’impegno di votare questa modifica, e in caso contrario ascoltarne gli argomenti.

Non esistono, peraltro, solo i disegni di legge. La convenzione di Strasburgo del 1992 e una raccomandazione del Parlamento Europeo vanno nella medesima direzione.

 

Per inciso, la legge sullo ius soli non sarebbe precisamente una rivoluzione. I cittadini che trascorrono legalmente un certo periodo sul territorio (dieci anni) possono già acquistare la cittadinanza una volta compiuta la maggiore età.

Quel che cambia è l’abbreviazione del periodo considerato e soprattutto lo spostamento della prospettiva verso i minori: la nuova legge consente di anticipare l’acquisto della cittadinanza alla minore età, quando i genitori (che invece continuerebbero, certo un’anomalia, a non diventare cittadini prima del vecchio termine decennale) hanno un permesso di lungo soggiorno, che si può ottenere dopo almeno cinque anni se si è in possesso di alcuni requisiti, specialmente legati al reddito. In più i minori acquistano lo stesso diritto dopo il compimento di un percorso di studio quinquennale.

Le obiezioni principali sono due, una falsa e l’altra evidentemente assurda: quella falsa è che chiunque nasca sul suolo italiano acquisirebbe la cittadinanza. Come detto è necessario che si tratti di figli di stranieri che soggiornano legalmente sul territorio da almeno cinque anni o di ragazzi che hanno frequentato la scuola per cinque anni. L’altra è che in questo modo si incentiverebbe l’immigrazione. Ma in che modo? Ce la vedete ancora più gente ammassarsi sui barconi dicendo: Adesso sì che ci sistemiamo. Arrivo in Italia, mi faccio assumere, mi sparo un figlio, e quello tra cinque anni è italiano. Così a occhio, non sembra un obiettivo semplice. E per fare cosa, poi? Scrivere “osteria romana” fuori dal negozio di kebab? Per viaggiare all’estero e se fanno un po’ più di chiasso essere additati con “ecco, i soliti italiani”?

Dall’altra parte, trovo demagogiche le ostentazioni di bambini col tricolore. Se c’è una categoria a cui non frega nulla di essere italiano (salva la certezza di diventarlo a una certa età) è quella dei bambini. Il loro desiderio è di essere accettati. Ma non è cambiando la nazionalità sul passaporto che saranno guardati in modo diverso dai bambini (chi conosce l’antica canzone napoletana Tammurriata nera? Che tu o’ chiamm’ Ciccio o Antonio…). Se l’Italia si sta dividendo sullo ius soli è perché inciampa sull’integrazione culturale, ed è sulla cultura che bisogna lavorare. Quella rancorosità verso lo “straniero che ci ruba il lavoro” non si risolve burocraticamente. A volte, come appresero amaramente gli ebrei sotto il nazismo, l’integrazione rischia persino di accentuare il malumore. Del resto la parità di diritti civili, oggi, non impedisce nella sostanza che per un posto qualificato si preferisca l’italiano “puro” in quanto tale o che a un controllo di frontiera il colore della pelle, e solo quello, induca l’autorità a un atteggiamento meno rispettoso.

L’integrazione, insomma, passa per il riconoscimento sociale, e la nazionalità a quel punto ne scaturisce naturalmente. Il contrario mi pare un’illusione.

Poi ovviamente ci sarebbe da discutere su quest’improvvisa esaltazione della cittadinanza e dei comuni valori in un paese che da tempo non si caratterizza certo per la compattezza, il rispetto reciproco, l’uniformità regionale delle opportunità e dei servizi, la fiducia nei governanti, la consapevolezza fiscale,  la conservazione della memoria storica, un civismo condiviso. La proclamazione della cittadinanza, per tanti, è un modo per sfilarsi da un sentimento di inadeguatezza, che proprio la separazione tra italiani alimenta, al quale reagire spingendo fuori dalla porta l’ultimo arrivato per gridare ammiccante a chi rimane dentro: “cosa vuole questo da noi italiani”?

Fa sorridere l’insistenza su un esame culturale di cittadinanza per gli stranieri: non tanto perché rammenta una barzelletta (mi dica come si chiamano gli abitanti della Puglia? Pugliesi! Eh, facile così! I nomi, i nomi…) ma perché è facile immaginare quanti caduti un serio esame culturale provocherebbe tra gli indigeni.

Se davvero crediamo che la cittadinanza bisogna meritarsela fino in fondo, avendo cognizione delle risposte che insegnano ad orientarsi dentro di essa, magari dovremmo portare questa tesi sino alle sue conseguenze più estreme e coerenti. E non darla con lo ius soli, la cittadinanza, va bene: ma stabilire poi che per chiunque funzioni a punti, come la patente di guida.

Di |2020-09-11T15:16:41+01:0023 Giugno 2017|Il futuro della democrazia|

2 Commenti

  1. Mike 23/06/2017 al 16:57 - Rispondi

    Perché non parli anche della condizione di reciprocità, già prevista dl nostro codice civile ed abrogata dalla sinistra che ha attribuito allo straniero munito di permesso di soggiorno gli stessi diritti del cittadino?
    Ti sembra giusto rogitare compravendite o atti costitutivi da parte di cinesi non potendo noi in Cina fare altrettanto? Ed ovviamente la Cina è solo un esempio.
    Perché in Italia devono fare tutti come gli pare, e siamo diventati ll paese rifugio di tutto e tutti nel bene e nel male?

    • Remo Bassetti 25/06/2017 al 12:44 - Rispondi

      La condizione di reciprocità, introdotta nel 1942 in una temperie culturale un tantino diversa, consiste nel fatto che il godimento dei diritti civili dello straniero sia subordinato al medesimo trattamento dell’italiano nello stato da cui quel cittadino proviene. Il novero dei diritti civili condizionati si è progressivamente ridotto, essendo esclusi per ragioni costituzionali quelli che vanno a toccare diritti fondamentali. Tra questi la giurisprudenza, molto prima della legge del 1998, nel tempo ha cominciato a includere il diritto al lavoro a all’abitazione. Dalla nascita della Comunità Europea la reciprocità non è stata più applicabile ai cittadini comunitari, e la stessa Comunità Europea ha reiteratamente esortato gli stati membri tutti a disapplicarla nei confronti dell’immigrato extracomunitario in possesso di regolare permesso di soggiorno. La legge fu la conclusione di questo ciclo storico, direi una conclusione logica anche perché gli immigrati che vengono accolti non hanno colpa della posizione del loro paese e del resto la caratteristica di pressione e ritorsione della condizione di reciprocità non ha funzionato. Essa è rimasta una chiave di pressione utile solo rispetto agli investimenti, dire nella sostanza a un paese: io non faccio investire ai tuoi cittadini se tu non lo fai con i miei. Per questa ragione la storica spina del fianco dell’Italia non sono i paesi arabi ma la Svizzera, per la quale non si verifica la condizione di reciprocità. Chiarito questo, all’interno di coloro che non amano l’immigrazione, è una posizione molto differente quella di chi pensa che gli stranieri, in qualche misura, non debbano entrare e quella di chi sostiene che una volta entrati debbano essere in condizioni peggiori degli italiani. Dovremmo forse concedere le ferie ai lavoratori cinesi secondo la legge sindacale cinese (che si applica a cinesi e stranieri)? Infine: gli stranieri acquirenti di case versano i soldi a venditori italiani. Con la crisi del mercato che c’è scommetto che chi vuol vendere casa voterebbe senza indugio per l’abrogazione totale della condizione di reciprocità, a prescindere dal permesso di soggiorno…

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