Va in onda il leader populista

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Ma in cosa consiste questo populismo di cui tanto si parla? Non è un’ideologia, semmai uno stile politico caratterizzato dal camaleontismo di un leader carismatico. Per essere più precisi, ci troviamo dentro il populismo quando in una situazione reale di crisi del sistema (economica, istituzionale, di legittimità, o tutte e tre le cose insieme) un leader individua un “popolo” da usare come strumento contundente contro quelli che sono al potere al fine di sostituirsi a loro. In questo senso il populismo parrebbe un fenomeno contro, destinato a sgretolarsi quando la responsabilità di esercitare effettivamente il potere costringe a prendere decisioni, fra le quali alcune necessariamente impopolari: e alcuni movimenti populistici vanno incontro a una rapida parabola discendente anche solo quando annusano il potere. Ma il populismo moderno può ben riciclarsi come pratica di governo, con un lavoro efficace sulle tecniche di persuasione, mantenendo viva la tensione intorno ai pericoli che ha evocato per arrivare al potere e rinunciando a portare sino in fondo i programmi, anzi tenendoli scientemente sempre incompleti per poter invocare la necessità di un nuovo mandato al fine di condurli a termine.

Come suggerisce il nome, la chiave di lettura è la nozione di popolo che può essere declinata in tre forme: popolo-nazione, popolo-classe e popolo-sovrano. Nel primo caso l’appello del leader aizza contro un nemico etnico; nel secondo contro un nemico di classe; nel terzo contro il sistema di rappresentanza, accusato di tradire la fiducia del popolo e usurparne la volontà. Quest’ultimo è certamente il richiamo più frequente in Italia. Il principio che lo regge, continuamente esplicitato, è che i governati sono meglio di coloro che li governano. E come mai proprio il leader costituirebbe l’eccezione? Ma naturalmente perché è uno di loro, dei governati. I più recenti studi psicologici sulla leadership tendono a rivalutare, come elemento essenziale, più il rapporto di immedesimazione tra gruppo e leader che le doti eccezionali di quest’ultimo. Del resto Weber, più volte frainteso da parte dei lettori, chiamava carisma non quello che il leader possiede di suo ma quello che al leader viene attribuito dai suoi adepti. Nella politica questa prospettiva richiede, tendenzialmente, che il leader non abbia fatto già parte della classe politica. È un fiore all’occhiello che non appassisce neppure quando, dopo diversi anni in parlamento o al governo, il leader continua a parlare come se i suoi colleghi appartenessero a una differente categoria sociologica. Egli è sempre “imprestato” in qualche modo alla politica.

Il j’accuse del leader populista rivolto verso i nemici del popolo-sovrano non si ferma mai ai singoli avversari ma travalica in una riprovazione più ampia che viene spesso etichettata come antipolitica e che contiene: 1) la denigrazione della classe politica in essere come casta; 2) la denigrazione dei tempi della politica, considerati un meccanismo inefficiente di domanda/risposta; 3) la denigrazione delle procedure della politica, inutilmente complesse, e che potrebbero essere snellite dal dinamismo proprio del dirigente d’azienda o dal plebiscito popolare, magari telematico; 4) la denigrazione della politica come strumento efficiente di allocazione delle risorse.

La soluzione, ovviamente, è politica, visto che consiste nella concentrazione del potere in mano al leader, ma viene presentata come riordino domestico. Anche perché il leader tocca sempre le corde emotive, sia quando scatena (o meglio raccoglie e indirizza) il risentimento contro gli avversari, sia quando si propone come mediatore affettivo dentro una comunione simbiotica con il popolo. Senza esagerare nelle effusioni: sarà anche vero che della democrazia esistono una visione redentrice e una pragmatica, ma il populismo moderno è meno intransigente e meno catartico. La nozione classica di populismo, considerata più o meno intercambiabile con quella di fascismo o di altri totalitarismi, annovera tra gli ingredienti l’annullamento della personalità individuale nella massa unificata dal leader, ma si tratta di un elemento espunto dalla modernità occidentale. Propongo di definire, con un piccolo accorgimento grafico, la sua variante soft come populismo. Il leader non vuole illudere più di tanto il suo popolo che comanderà insieme a lui, perché quella che chiede è una delega in bianco. Al popolo egli promette semmai che non verrà più comandato, salvo quelle poche cose veramente essenziali. Il populismo è una retorica della libertà.

Tra le varie contraddizioni della sua evoluzione il populismo ne sconta una legata all’approccio di marketing che i partiti, e ancor più i leader, hanno da tempo applicato alla politica. Così come l’azienda è consapevole di non poter vendere i suoi prodotti a tutti, e regola la sua comunicazione a misura dei destinatari che ne costituiscono il target, allo stesso modo si regola la politica poiché essa non è più l’attuazione di un programma ma il presidio di uno spazio sociale. Lo spazio sociale della politica corrisponde al segmento di mercato dell’economia. Esso si riferisce a un gruppo di persone identificabile per le sue richieste e la riconducibilità di queste ultime a uno stile di vita. Intercettando la domanda di questo target se ne ottiene l’adesione come gruppo di consumatori, che nello specifico è il voto. Il populismo, nel riferirsi a una totalità, sembra una crepa in tale impostazione.

La questione è che i prodotti commerciali servono a distinguersi da certe persone e ad accomunarsi ad altre. Se il singolo consumatore, che immaginava un dato oggetto quale certificatore del suo stile di vita e della sua identità, si persuade che quel bene lo possiedono tutti, gli si disaffeziona. Nella politica, invece, essere in pochi non è buona cosa perché vanifica la preferenza espressa con il voto. Quindi, pur tarando i messaggi sul suo segmento di mercato, il leader, con l’accortezza di additare una fazione di nemici del popolo come scherani di coloro che usurpano il potere, si rivolge ad esso vezzeggiandolo come anima sana nel paese malato, e dunque parte che sta in prospettiva per il tutto.

Il populismo è antielitario, anche al di là della critica all’establishment. Già i primi populismi ponevano l’accento sul buon senso dell’uomo comune e sui valori della tradizione. In quelli più recenti la nozione di popolo viene spesso sostituita da quella di “gente” (si è giustamente parlato di un vero e proprio gentismo), a volte per indicare nel pragmatismo della saggezza quotidiana una bussola migliore di certi arzigogoli intellettuali, altre volte per appellare la collettività che sta esprimendo le sue aspirazioni con un vocabolo meno onusto di “popolo” e meno squalificante di “masse”. Questa variazione terminologica accredita l’informalità pop del populismo e colloca meglio il leader tra i suoi elettori, poiché solo chi fa parte della gente la definirebbe (con un’accezione positiva) la gente.

Il populismo può intendersi come una riduzione della complessità. L’interdipendenza di un crescente numero di fattori economici, sociali e istituzionali nel determinare le decisioni sul territorio genera insicurezza, specie quando la tenuta del sistema mostra segni di squilibrio. La gente vuole sedare le proprie angosce e, affamata di pensiero magico, reperisce nel populismo una rassicurante visione manichea dei conflitti e l’obiettiva semplificazione che un leader unico si faccia carico della crisi del sistema.

La politica intera, peraltro, si è indirizzata verso una progressiva riduzione della complessità. Nonostante la crescente importanza delle nuove tecnologie, il carisma del leader continua a fondarsi sulla (e ridursi alla) telegenia. Non è assolutamente proponibile, nonostante qualsiasi aura intellettuale, un leader che non sia di impatto piacevole sul video. Tale qualità non si esterna solo nella prontezza a rispondere ad argomentazioni di avversari o intervistatori e nell’esibire, stilizzate, le attitudini che la gente si attende da un leader. Essa deve più propriamente consistere in una duttilità ai generi televisivi, poiché gli interventi che più massicciamente possono spostare il voto saranno programmi di infotainment quando non di pura evasione: una buona propensione a infiocchettare il suo lato privato, la disponibilità a condividere i suoi segreti con qualche milione di spettatori, il riferimento a valori molto astratti, la soppressione degli incisi e delle subordinate. E soprattutto una sostanziale bonomia, l’essere alla mano: nelle elezioni americane del 2004 si scatenò quello che venne definito sweatergate, la corsa a indossare i maglioni sportivi in luogo dei troppo seriosi abiti formali da lavoro. Il riconoscimento del leader come uno di noi in senso pop è un momento essenziale nel costituirsi del rapporto populista, ed è paradossalmente un numero che riesce sempre meglio ai miliardari che ai rappresentanti della sinistra.

La televisione è stata, a qualsiasi livello, un fattore di riduzione della complessità della comunicazione politica, poi ereditato dai social media. Gli spin doctor, consulenti dell’immagine, sono diventati i veri consiglieri del principe e la funzione promozionale ha eclissato la pratica discorsiva. La pretesa di esporre in televisione un ragionamento articolato equivale a quella di ficcare cento vestiti in un armadio in cui ce ne stanno dieci. Per questo risulta inutile confutare il messaggio di un avversario politico se non si dispone di un efficace contro-messaggio di pari stringatezza o incisività: in quel caso si preferisce ricorrere alla tattica di squalificare il messaggio in quanto non vero, disonesto. È incredibile quanto poco gli avversari politici nel confronto pubblico indichino come semplicemente sbagliata la posizione opposta, ma il problema è che l’errore reclamerebbe, appunto, una spiegazione, categoria poco televisiva. Il ricorso all’accusa di mentire è tranchant, non richiede prova perché costringe lo spettatore a scegliere empaticamente. La continua accusa di disonestà nei dibattiti è penetrata nella dotazione cognitiva degli spettatori e ne è risultata facilitata la deduzione qualunquista che il ceto politico è disonesto nel suo insieme. Un dibattito sembra piuttosto una rissa tra complici di qualche delitto che, di fronte al rischio che uno solo finisca in galera e l’altro si goda il bottino, cominciano a lanciarsi accuse reciproche che tuttavia molto chiaramente mettono in luce la comune estrazione criminale.

La forma idealtipica della moderna comunicazione politica è lo spot. Nato per concentrare in un’immagine icastica un messaggio durante una campagna elettorale, lo spot è diventato la grammatica di base di qualsiasi comunicazione per effetto di quella che è stata definita campagna elettorale permanente. L’intervento di un esponente politico in televisione è un’occasione mancata se non contiene almeno uno spot, ovvero un enunciato:

  1. il cui unico scopo è quello di suscitare consenso e apprezzamento verso la parte politica dell’oratore;
  2. che tende a far prevalere, nella valutazione dello spettatore, l’elemento emotivo su quello razionale;
  3. che raccorda un accadimento concreto con un significato più generale, senza indugiare sulla mancanza di passaggi dimostrabili;
  4. che contiene una semplificazione, contenutistica non meno che linguistica, dell’argomento che viene toccato;
  5. che contiene almeno parzialmente una deviazione rispetto al contenuto originario dell’argomento.

 

Se mettiamo insieme il dominio dello spot nell’ambito della comunicazione politica con l’inclinazione attoriale dell’esponente politico (una componente ineludibile della telegenia) e la personalizzazione della politica stessa, possiamo concludere che tanto più sale il livello dell’esponente politico, tanto più lo spot non è precisamente l’enunciazione fatta dall’oratore: lo spot è l’oratore che pronuncia quel messaggio (e in effetti la notizia che i quotidiani riprenderanno non sarà la dichiarazione in sé ma il soggetto politico che pronuncia quella dichiarazione). In questo modo la personalizzazione della politica raggiunge il suo apogeo perché cancella la separazione tra parlante ed enunciato, lasciando in vita solo il primo.

Si spiega così perché ai politici venga perdonata facilmente la contraddizione tra un’affermazione e l’affermazione successiva o la condotta concreta che la smentisce: la vera linea di continuità non è nella coerenza delle condotte del politico ma nello spot, ovvero nel soggetto che comunica, indipendentemente dal contenuto della comunicazione.

 

Questo brano è tratto parzialmente dal mio libro “Cosa resta della democrazia

Di |2020-09-11T15:16:26+01:007 Dicembre 2017|Cosa resta della democrazia, Il futuro della democrazia|

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