Quattro falle del capitalismo moderno che conducono alla rovina (oppure…)

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L’economia ci dà ottime ragioni di essere preoccupati per il futuro. Di alcuni nodi si può pensare che appartengano a un ciclo negativo al quale potrebbe seguire un ciclo favorevole, come è stato in passato. Alcuni sono il frutto di scelte, reversibili e ripensabili (comincia, per esempio, ad accadere con la delocalizzazione degli impianti). Ne rimangono però altri che stanno divenendo strutturali e non sono strettamente discendenti dai cambiamenti sociali (come la globalizzazione).Costituiscono puramente e semplicemente una grave alterazione dei principi del capitalismo liberale e delle sue regole. Tanto da pensare che il loro protrarsi sfocerà in dirompenti tensioni sociali, assai più gravi delle attuali.Concentrandosi sui problemi immediati (come i flussi di immigrazione) si perde di vista quel che, più sottilmente, sta cambiando le prospettive a venire. Almeno quattro fattori stanno indirizzando i mercati verso un punto di rottura.

 

  1. Vinca il peggiore. L’ideologia del mercato ha sempre tramandato il concetto di una competizione in cui vince chi riesce a offrire i beni più appetiti dai consumatori. Non è sufficiente tuttavia prevalere sui concorrenti: è necessario che ciò avvenga senza che i conti dell’azienda vadano in rosso.

Da quando, negli anni ottanta, si è cominciato a paragonare lo stato a un’impresa gli economisti hanno preso a bacchettarlo, prima ancora che per la qualità dei servizi, per il fatto che vengono resi in perdita.

Ora, si tessono le lodi delle aziende di disruption, quelle che innovano un mercato preesistente sino a sviluppare un nuovo business. Gli ultimi casi sono quelli di Airbnb e Uber, indicati come luminosi modelli di efficienza trainati dalla tecnologia. Nel giro di una manciata di anni queste aziende hanno acquistato una posizione di leadership. Hanno solo un difettuccio: perdono. Ogni anno accumulano perdite non indifferenti, e possono stare sul mercato grazie al fatto che gli investitori continuano a finanziarli. Perché le finanziano? Perché confidano che esse guadagnino una posizione di monopolio, l’unica condizione in cui possono stabilmente imporsi sulla concorrenza.

Nella storia ci sono stati casi di imprese la cui prosperità è stata preceduta da una fase di perdite: in aree di esportazione, nelle quali praticavano il dumping, cioè vendevano sotto costo, per eliminare i concorrenti. Si tratta di una distorsione del mercato, che infatti è sempre andata incontro a una regolamentazione repressiva (che in verità non è riuscita a cancellarla). Questa è molto peggio: è una sistematica azione che non tiene conto dell’utile, nonostante stia svicolando dalle norme principali che impongono costi (il pagamento delle imposte per gli affiliati di Airbnb o l’inquadramento salariale dei guidatori da Uber). Una simile situazione potrebbe avere un senso nella prospettiva di una futura economia collaborativa (che romperebbe con il sistema economico del capitalismo) ma la sua direzione è quella di un monopolio dentro il capitalismo. Rispetto alla visione marxista, che immaginava il capitalismo teso verso i monopoli per effetto di un fenomeno di sacculazione e concentrazione, c’è solo una modalità differente di formazione del monopolio, che non transita per una leale competizione sul mercato ma la salta valorizzando alcuni fattori produttivi. Il modello di questi nuovi agenti della disruption è Amazon, che a sua volta produsse in perdita per un periodo e adesso punta a una pluralità di monopoli, vedendo riconosciuta questa prospettiva dagli azionisti che hanno consentito ad Amazon di raggiungere un rapporto tra valore delle azioni e profitti grottescamente sproporzionato. L’aspetto curioso è che queste imprese sono state accolte positivamente per la loro ipotetica idoneità ad allargare la concorrenza. Esse rappresentano la quintessenza di un capitalismo tecnologico orientato a fondare la concorrenza sulla riduzione del costo unitario di produzione, ciò che taglia effettivamente fuori quasi tutti i competitori o li manda in rovina.

Queste aziende, nel breve periodo, riducono effettivamente i costi per i consumatori: ma nel medio faranno terra bruciata di tutta quella infrastruttura industriale e artigianale dalla quale buona parte dei consumatori, direttamente o indirettamente, riceve reddito.

  1. La ricchezza come le nazioni. Parafrasando il titolo dell’opera di Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, la novità di quest’epoca è che alcune persone sono ricche come le nazioni, come più nazioni. Ecco che il patrimonio personale delle 400 persone più ricche supera il Pil di tutti i paesi del mondo, esclusi gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone.

Prima di discutere se tutto questo sia morale, vale la pena di rimarcare come si tratti di un sostanziale ritorno all’ancien regime e anche prima, alle rendite nobiliari e alla dannazione che costituivano per il buon andamento dell’economia. Che venti miliardi siano nella mani di uno stato (o magari di mille aziende) oppure di una persona fa molta differenza per la quantità di persone che ne traggono vantaggio oltre che per la circolazione degli scambi e l’occupazione. In più, determinante nella formazione di simili ricchezze è l’elusione degli obblighi fiscali (fa tenerezza vedere l’entusiasmo con cui i governanti europei salutano il recupero di una manciata di spiccioli da Apple  e compagni): non solo una condotta antisociale ma, di nuovo, un allineamento con i vecchi privilegi nobiliari.

Come ha dimostrato Thomas Piketty un’imposta patrimoniale sui principali patrimoni aggiusterebbe all’istante diversi bilanci statali.

  1. Robot vs. umani. L’antagonismo non è automatico, ma non è casuale se la pubblicistica più recente insiste molto su una sorta di “umanesimo robotico” e cioè sulla capacità dell’intelligenza artificiale di appagare bisogni essenziali, persino affettivi, delle persone svantaggiate (si leggono quotidianamente pagine dei quotidiani ridotte a megafoni e uffici stampa delle multinazionali tecnologiche). In questo modo si pone in secondo piano quella che rimane la principale prerogativa dell’automazione, il rimpiazzo dei posti di lavoro. Che la tecnologia sostituisca corpi non è una novità, e già la rivoluzione industriale dovette confrontarsi con i luddisti che devastavano i macchinari. Nel medio periodo, tuttavia, l’occupazione ne ha tratto giovamento (anche se non sempre qualificazione: i contadini che la povertà sradicava dalle campagne e finivano a seguire il ritmo delle catene di montaggio- il verbo al passato che stiamo utilizzando può essere riprodotto al presente in Asia- non svolgevano certo un lavoro più gratificante). Ora, che l’automazione è persino regolarmente in grado di cancellare i lavori mediamente intellettuali, la questione è assai diversa: è praticamente certo che non sarà possibile (a maggior ragione dentro un processo di monopolizzazione) recuperare la stessa quantità di posti di lavoro. Ancora un dettaglio non casuale: le aziende della Silicon Valley hanno preso a patrocinare con vigore l’introduzione del reddito di cittadinanza. Vi possono essere molti motivi per sostenere il reddito di cittadinanza (e anche, per ora, molte versioni del reddito di cittadinanza). Quello di Silicon Valley è la previsione di un mondo nel quale una grande quantità di persone sarà espulsa dal mondo del lavoro, e bisognerà conservar loroe una minima capacità di spesa sia per mantenerli acquirenti dei servizi tecnologici sia per sedarne impulsi ribellistici o rivoluzionari che conseguirebbero a una condizione di indigenza disperante e assoluta.
  2. La morte del risparmio. Il risparmio è la condizione iniziale del sistema capitalistico, la sua vocazione originaria per dirla alla Max Weber; il tasso d’interesse una delle leve principali per agire sugli altri fattori. Si è a lungo pensato che l’economia oscillasse tra due variabili estreme, l’inflazione e la recessione prima che quest’illusione venisse spazzata via negli anni settanta dalla stagflazione, ovvero inflazione e recessione contemporaneamente. I poteri pubblici sono rimasti più scottati dall’inflazione che, effettivamente, in un tempo molto rapido distrugge il potere di acquisto dei titolari di reddito fisso (dato che l’aumento dei salari non tiene il passo dell’aumento dei prezzi) e quello dei risparmiatori, poiché il valore nominale del denaro che hanno accantonato diventa carta straccia. L’inflazione selvaggia spinge le persone al suicidio, le getta immediatamente sul lastrico. Non era previsto che l’attacco al risparmio provenisse da un altro fronte, dall’azzeramento dei tassi di interesse. Si tratta di una situazione di evidenza meno drammatica ma che rispetto all’aumento inflazionistico dei prezzi, che costituisce una perdita di controllo sull’equilibrio economico, pare avviata ad essere pacificamente strutturale, ed è in grado di corrodere lentamente il tenore di vita della classe media, della classe operaia, dei pensionati. In Europa i tassi negativi di alcuni titoli di stato e anche delle banche (è entrato nella storia il caso del tizio danese cui la banca ha finito per pagare interessi perché tenesse i soldi a mutuo, nel 2016) sono nati come tassa sulle banche, che preferivano accumulare denaro piuttosto che usarlo per finanziare. Oggi, il risparmio (piccolo e medio) non conosce praticamente alternative: o si dirige vero la speculazione, con tutti i rischi che comporta sul capitale, o si accontenta di una remunerazione inesistente (come abbiamo detto con la prospettiva di divenire persino un costo), e questo significa che con il trascorrere del tempo chi ha perso il lavoro, chi ha visto il reddito ridotto a livelli di sussistenza, chi si è pensionato consuma puramente e semplicemente il capitale che ha accumulato, con il concreto rischio di esaurirlo prima della morte. Il risparmio privato, che assicurava anche una dotazione iniziale ai discendenti, rischia di non garantire neppure la vecchiaia. Basterebbe in queste condizioni una spinta inflazionistica veramente piccola per far saltare il banco.

E’ sorprendente il relativo fatalismo con cui le persone stanno andando incontro al proprio destino. Ma siamo davvero certi che, una volta condotte sulla soglia del baratro, manterranno lo stesso atteggiamento?

Parliamo della parte più fortunata del mondo. Pensiamo alla California che nel 2009 dovette far fronte a un deficit di bilancio di 26 miliardi di dollari e così tagliò pesantemente gli stipendi pubblici, i finanziamenti per le scuole primarie o i programmi sanitari per la cura del cancro. Parliamo di circa metà del patrimonio di Jeff Bezos, che con le prime tre questioni indicate sopra è direttamente implicato. La quarta, il risparmio, è meno interdipendente con le altre ma unita a loro fotografa abbastanza chiaramente una situazione in cui quasi tutta la popolazione mondiale si troverà, non solo penalizzata, ma schiacciata e uccisa dal sistema economico e dalla gestione politica dello stesso.

Forse pensandoci è ancora più sorprendente è l’ottimistica inerzia della classe dirigente, e delle grandi aziende che da loro sono protette. Come se fossero, costoro, curiosi di contemplare lo spettacolo dell’incendio che, appiccato, si dirige verso i loro palazzi.

Di |2020-09-11T15:16:46+01:0028 Aprile 2017|Limite di velocità|

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