A cosa è servito (e a cosa no) il politicamente corretto

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E’ vero che certe opinioni non si possono più esprimere liberamente? E’ vero che la colpa è del “politicamente corretto”? E’ vero che stiamo smettendo di chiamare le cose con il loro nome?

 

Visto che ci interessa chiamare le cose con il loro nome, cominciamo col ricordare in cosa consista effettivamente il politicamente corretto. Teorizzato nelle università americane progressiste degli anni novanta esso si sostanzia in un uso gentile del linguaggio pubblico al fine di non offendere persone e categorie di persone, contraddistinte dal fatto di essere minoranze e di trovarsi in condizione di subalternità internamente a rapporti di dominio.

Si trattava di una riflessione ispirata dal post-colonialismo, dal femminismo e dall’ideologia gender, poi variamente estesasi, che ha riguardato (come beneficiari) le etnie non occidentali con particolare riguardo ai neri, le donne, gli omosessuali, quelli che (prima del politically correct) si sarebbero definiti tranquillamente handicappati, le persone che esercitano mestieri molto umili. Quel che il linguaggio politicamente corretto mirava a ottenere era, secondo le varie versioni e applicazioni: 1) cambiare le etichette attribuite alle persone. Ecco che il “negro” diventava “nero” o il cieco “non vedente”, il bidello “operatore scolastico”; 2) togliere le etichette alle persone, elevando coloro che erano danneggiati dalle etichette sul piano degli altri, cioè di coloro che li etichettavano per differenziarli. Quindi cassare criteri di individuazione irrilevanti, come la declinazione nel genere di una persona (la Smith se si parla di una giornalista invece che Smith); 3)  neutralizzare gli ambienti eliminando elementi verbali che rinforzino il predominio di un gruppo o la marginalizzazione di un altro, come dire “Che Dio vi benedica” in un contesto che comprenda appartenenti a religioni diverse. Lo scopo dichiarato era favorire l’inclusione e, per questa via, l’eguaglianza (ma anche la differenziazione, poiché il riscatto degli “altri” meno visibili avrebbe messo in luce ricchezze culturali diverse da quelle dominanti).

 

Questa più che una teorizzazione ordinata è una ricostruzione a posteriori, poiché quasi nessuno si definisce “politicamente corretto”, e la maggior parte degli articoli pubblicati nel mondo, dal novanta sino ad oggi, sono scritti da opinionisti che, partendo dal presupposto che su certi temi non si può esprimere un’opinione anticonformista senza che qualcuno ti rompa le palle perché non sei stato politicamente corretto, ne deducono che è ora di finirla con il politicamente corretto, che ci ha fatto due palle. Dal moto di fastidio si è poi passati a sostenere che è colpa del PC (troppo disgraziatamente lungo per ripeterlo ogni due righe: d’ora in poi ricorriamo in alternativa a quest’abbreviazione che non sta per partito comunista, anche se alcuni dicono che il PC politicamente corretto è proprio autoritario come il PC partito comunista) se non si riesce a porre un freno all’immigrazione di massa, se qualsiasi donna si può svegliare al mattino e sostenere con successo di essere stata molestata, se non si combatte con efficacia il terrorismo. Chiunque si limiti a una constatazione di fatto (quei clandestini di fronte mi hanno minacciato e mi fanno paura, quella si portava a letto un sacco di gente per convenienza, quell’arabo predica l’odio, quel locale è pieno di froci) viene zittito con l’accusa di  essere razzista, sessista, omofobo. E’ anche la tesi dell’antropologo svedese Jonathan Friedman, autore del recentissimo saggio sull’argomento (il cui titolo è appunto “Politicamente corretto” e il sottotitolo “Il conformismo morale come regime”) pubblicato in Italia per Meltemi. Friedman sostiene anche che con il PC la sinistra si è alienata le simpatie della sua naturale base proletaria e che è passata a difendere la visione del mondo liberale dell’elite globalizzata, perorando la causa, ben oltre il multiculturalismo, sconfinando nel meticciato, nel nomadismo e nell’ibridazione, denigrando come nazionalista (e di destra) ogni legittima aspirazione nazionale.

 

Il PC è fiorito nel momento di massimo splendore della filosofia del linguaggio, che ha improntato tutto il Novecento. Così la migliore intuizione alla base del PC è che il linguaggio non si limita a descrivere il mondo ma, denotandolo, lo costruisce. Questo perché, come per primo dimostrò Austin, il linguaggio è anche un’azione che produce direttamente effetti sul mondo. Non era dunque peregrina l’idea che incidendo sul linguaggio si incida anche sul reale. E’ vero che questo è stato anche il pensiero delle dittature: però visto che, in occidente, dittature di neri, etnie immigrate, donne, omosessuali, transgender, disabili e bidelli non ce ne sono mai state, né appare probabile che ci saranno in futuro, il PC si potrebbe considerare come un modo di vedere la vita dall’angolazione di chi ha meno possibilità di esserne attualmente soddisfatto.

 

Il PC, tuttavia, non è immune da difetti. Quando ho letto il libro di Friedman (che lo ha scritto per perorare le ragioni della moglie, una docente che in nome del PC una volta era stata tacciata di razzismo: un bel modello di lealtà coniugale ma, dovremmo convenirne, una prospettiva socialmente ristretta) e la frase che il grande difetto del PC sta nel fatto che fa leva sul sentimento di vergogna ho pensato: ecco, questa è un’idea fulminante. Mi sono poi reso conto che Friedman si riferiva alla vergogna di chi non può dire quello che pensa (se pensa politicamente scorretto) e sono rimasto un po’ deluso. Pare a me più interessante che il PC istituzionalizzi il sentimento di vergogna delle categorie protette. Affermare che la persona clinicamente affetta da cecità debba qualificarsi “non vedente” sottintende che di essere cieco dovrebbe vergognarsi (se no non gli troveremmo un vocabolo apposta) e che “negro” fosse insultante l’hanno deciso paternalisticamente dei traduttori bianchi che ora stanno planando su “di colore”, che marca ancora più una deviazione rispetto a una normalità “bianca” oltre che accentuare l’elemento della pelle, per non parlare degli imbarazzi che il movimento gender crea quando si tratta di distinguere le toilette. Insomma, invece di dire ai gruppi di minoranza o soggetti a oppressione o colpiti da una disgrazia che non avevano nulla da vergognarsi abbiamo deciso che, siccome un po’ si dovrebbero vergognare, li tuteliamo con un nome differente.

D’altronde se è vero che la parola serve per agire, non è detto che denominare risolva un problema concreto. Al contrario, l’azione svolta dalla parola può consistere nel nasconderlo o posticiparne la risoluzione. Per intanto tenetevi il nome nuovo poi quando riusciamo a fare qualcosa che lo rispecchi vi avvertiamo. La posizione relativa di questi gruppi pare in effetti migliorata assai meno di quella linguistica.

Ancora, il pregio del PC dovrebbe consistere nel fissare l’attenzione sul diverso: senonchè il rigore neo-classificatorio o de-classificatorio con cui vengono utilizzati i termini ha qualcosa di distaccato e burocratico, quasi de-umanizzante e de-semantizzante. Se la strategia del PC non è riuscita a garantirsi un durevole consenso sociale è anche perché a quello slancio verso il prossimo non è corrisposta alcuna tonalità affettiva.

Infine, e in questo sì che il PC è imparentato con il liberalismo più materialista, esso pretende di ricondurre la persona a degli attributi che ha (il sesso, la disabilità, la razza) negando che essa sia. Questa ulteriore sperequazione a favore dell’avere in campi in cui bisognerebbe rivendicare la sovranità dell’essere (ovviamente non come fattore deterministico: insomma io sono quelle cose lì, ma sono anche la mia storia    e la mia volontà) porta nuovamente nella direzione opposta a quella auspicata dal politicamente corretto.

 

Puntualizzato quanto mi pareva giusto, tuttavia, credo che ad oggi non abbiamo un problema del politicamente corretto ma del politicamente scorretto. Questa seconda espressione viaggia parecchio più sulla cresta dell’onda di quella antagonista e Trump ne è stato e ne è, il più fiero paladino. Alla resa dei conti, i soggetti marginali sono rimasti tali, con la differenza che speculando sul conflitto d’interessi tra certi gruppi marginali e altri gruppi economicamente subalterni, la destra è riuscita a raschiare voti alla sinistra u po’ ovunque. Il politicamente scorretto è diventato sinonimo di schiettezza e coraggio: in particolare, il coraggio di “dire le cose come sono”, dimenticando maliziosamente che le cose sono come sono anche (non solo) perché si dice che così sono. Quel che conta, prima dei fatti (almeno dei fatti sociali: un masso è un masso e la morte è la morte, ovviamente), è la percezione che noi ne abbiamo. E sarà la percezione che ne abbiamo oggi a determinare i fatti di domani.

 

Il PC è diventato, politicamente, una scommessa perduta per la sinistra. Non avendo avuto la forza per dare seguito ai cambiamenti che il linguaggio annunciava e avviava, né di armonizzarli con gli interessi e la sensibilità delle masse impoverite dalla globalizzazione, si trova ad affrontare un mondo poco meglio di prima ma molto più incazzato che ha dato stura entusiasta al politicamente scorretto. E per timore di essere imparentati a quest’ultimo, diversi intellettuali di sinistra hanno davvero paura di distinguere dentro i fatti, quando la loro demagogica strumentalizzazione  generalizzazione potrebbe portare acqua ulteriore al mulino della demagogia “scorretta”. E però, questo significa rinunciare al mestiere di intellettuale.

 

Eppure, eppure…un frutto è maturato. Lo dimostra la furia con cui la destra più irruenta sprezza e irride il politicamente corretto. Tuona: qui non è questione di essere razzisti, qui non c’entra essere sessisti. E giù, a seguire, che le donne un po’ sono troie, gli africani un po’ sono inferiori o i minorati un po’ fanno ridere. Perché non dirsi francamente razzisti, in questi casi, come facevano i nazisti o i fascisti? Il fatto è quest’attenzione maniacale alle parole (è vero, qualche volta fobica e goffa), con il doversi cucire la bocca in pubblico se si vuol dire storpio o mignotta o lurido negro a qualcuno, definirsi “razzista” o “sessista” è diventato un tabù. E inevitabilmente, sempre perché le cose stanno anche per come si dice che stanno, il razzismo o il sessismo hanno forme molto più tenui che in passato e meno facilità di propagazione. Non è affatto coraggioso chi, a supporto delle opinioni più estreme, rivendica il coraggio di essere politicamente scorretto. Il vero coraggio (al di là di quel che moralmente potremmo pensarne) ci vuole oggi a proclamarsi razzista o sessista, e quello nessun razzista o sessista ce l’ha più più. E’ per questa mancanza di “libertà di espressione” che alcuni odiano tanto il politicamente corretto.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2021-04-21T14:13:16+01:0016 Febbraio 2018|Il futuro della democrazia, Limite di velocità|

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