Perchè l’Italia non ha un governo e come possono aiutarci gli australiani

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Per risolvere il problema della maggioranza ci sarebbe un sistema elettorale adatto al nostro paese

Per capire quale male affligga l’Italia che non riesce a darsi una maggioranza dopo le elezioni politiche del 4 marzo, conviene partire da un confronto con la Democrazia Cristiana. Tra il 1948 e il 1992, infatti, l’affermazione che gli italiani avevano chiesto a qualcuno di governare era un dato matematico: la coalizione nella quale la Dc era il partner ampiamente maggiore otteneva infatti il voto di più di un italiano su 2.

Nell’elezione del 1958, preso da solo, il partito democristiano conquistò il 42% dei voti e la quota degli astenuti superava di poco il 5%. Oggi, parole come quelle di Salvini sul “diritto-dovere” di formare un governo alla luce di quello che hanno chiesto gli italiani provengono dal leader di un partito al quale quasi 7 italiani su 8 non hanno chiesto di governare!Peraltro, se si guarda alla coalizione, rimane un risultato che arriva a stento a favore di un italiano su 4. Come performance di partito quella dei 5 stelle è eccellente, superiore a quello che fu l’ultimo risultato della DC nel 1992: ma rimane il fatto che la DC compose un governo di coalizione che contava il 51% (questa volta al netto degli astenuti, che comunque non superarono la soglia del 12%) mentre i 5 stelle si sono proposti diversi e inconciliabili e, se rimettiamo nel conto gli astenuti, sono ampiamente al di sotto del voto di un italiano su 4. Si può comprendere la soddisfazione di chi ha preso voti in più del previsto o dei concorrenti ma le elezioni non sono una gara per arrivare primi bensì una gara per ottenere una maggioranza, allo stesso modo in cui si nuota per raggiungere la riva e non soltanto per lasciarsi alle spalle gli altri nuotatori.

 

L’attuale situazione di stallo era data quasi per scontata, ed addebitata essenzialmente al sistema elettorale, che non a caso viene ora indicato come l’oggetto sul quale una maggioranza transitoria potrebbe concentrarsi, al fine di rendere plausibile la vittoria di qualcuno in una nuova e vicina tornata elettorale. Il guaio è che, passando in rassegna tutti i sistemi elettorali esistenti o ipotizzati prima del rosatellum (il matterellum, il porcellum e le varie aberrazioni nostrane; ma anche il sistema tedesco o il sistema spagnolo) nessuna coalizione o partito avrebbe raggiunto il quaranta per cento. Egualmente per un sistema maggioritario, nel quale la divisione dei collegi avrebbe riprodotto un quadro affine.

Appare dunque chiaro che una legge elettorale che volesse coniugare l’efficacia con la permanenza delle odierne aggregazioni politiche dovrebbe sostanziarsi in un premio di maggioranza attribuito per un risultato inferiore al quaranta per cento (se non addirittura a un qualunque risultato determini un primato relativo, secondo alcune versioni che la Corte Costituzionale aveva considerato inaccettabili: beninteso, neppure questo garantirebbe la maggioranza, perché il premio potrebbe non bastare). Si tratterebbe insomma di istituzionalizzare un governo della minoranza, una situazione in cui la regola sia quella che a guidare un paese sia una forza politica (o un’alleanza di forze politiche) per la quale non abbiano espresso una preferenza i tre quarti dei cittadini! Certamente dovremmo gratificare questo sistema con un nome diverso dalla democrazia, e ci sarebbe da domandarsi perché non passare a uno stadio successivo ed eleggere direttamente un monarca a maggioranza relativa (risparmiando sui fatidici costi del parlamento…)

 

Viene dato sempre per scontato, fra i costituzionalisti, che la fissazione di un premio di maggioranza contenga la virtù di spingere preventivamente ad allearsi quelle forze che messe insieme potrebbero raggiungerlo. È anche vero, tuttavia, che una soglia bassa (e il quaranta per cento misurato sui votanti e non sull’elettorato non è affatto una soglia alta, abbiamo visto quale basso tasso di rappresentatività determini) spinge un partito forte, come attualmente sono i 5 stelle (e come solo due anni fa era quello di Renzi, che intravedeva il miraggio di un quaranta per cento già toccato alle elezioni europee) a non impegnarsi in un’alleanza, ritenendo il premio a portata anche correndo da soli. Ecco dunque che, specialmente in Italia (paese quasi unico per il suo livello di tripolarizzazione), per pungolare le forze politiche a coalizzarsi gioverebbe, per paradosso, una penale di minoranza: un conteggio dei voti sull’elettorato totale (e non sui votanti) che possa essere trasformato in conteggio sui votanti solo con il raggiungimento di una percentuale molto alta. In questo modo, le forze politiche dovrebbero rassegnarsi realisticamente a misurare le reciproche compatibilità anzi tempo invece che dopo essersi insultate in campagna elettorale. Ovviamente anche questa soluzione avrebbe un rovescio della medaglia, consistente nella corsa al centro e nel disinnescamento di posizioni che, nella loro radicalità, pur sempre includono una certa quota di innovazione.

 

Guardando all’estero esiste, poi, un sistema elettorale originale che si attaglierebbe al quadro italiano, nel quale domina il fastidioso ricorso alla finzione che gli italiani abbiano chiesto questa o quell’altra cosa, non solo in assenza dei numeri che ciò consacrino, ma anche in assenza delle voci che lo affermino. In un’elezione come quella appena svolta gli italiani che hanno votato si sono semplicemente espressi per il partito o l’alleanza che hanno votato, non certo per quel che doveva accadere nel caso che quel partito o quell’alleanza non avesse i numeri per governare.

Ebbene, il sistema australiano si avvicina a quest’impostazione proponendo una misurazione non solo di chi gli elettori vorrebbero vedere al governo ma pure di chi gli elettori assolutamente non vorrebbero vedere al governo. Funziona così: 1) gli elettori non devono indicare solo il candidato che prediligono ma indicarli tutti in ordine di preferenza; 2) si tratta di un sistema maggioritario che prevede l’assegnazione del seggio a chi raggiunga il 51%.

Nel frequente caso in cui ciò non avvenga, si elimina l’ultimo concorrente e si fa di nuovo il conto utilizzando la seconda fra le preferenze in tutte le schede che collocavano al primo posto il candidato eliminato. Se anche in questo modo non si raggiunge il 51%, si elimina il penultimo e si conteggia di nuovo, e così via. E’ una procedura ingegnosa perché coincide con una sorta di “doppio turno” in unica tornata e perché di fatto aumenta l’incidenza dell’elettore. Non si può insomma estorcere all’elettore quello che non ha mai detto ma lo si chiama in causa preventivamente, aumentando peraltro la legittimazione a governare degli eletti che non hanno solo una percentuale di voti ma anche una percentuale di voti non del tutto sfavorevoli (che si traducono in voti finali). Due altri dettagli interessanti: la scheda che si limita a indicare solo il nome del primo candidato è nulla e andare a votare è obbligatorio, pena una sanzione.

 

Ma davvero non rimane che occuparsi di una legge elettorale e non è possibile invece un’intesa più ampia su alcuni punti caratterizzanti i programmi?

Sul governo allargato, l’ipotesi più balzana mi pare quella della partecipazione in una qualsiasi forma del PD. Alcuni commentatori insistono sullo sgarbo che Bersani subì dai 5 stelle con l’umiliazione del rifiuto in streaming: ma direi che la vita di un paese è una posta troppo elevata per consentirsi il lusso di fare gli offesi. Il problema reale è che il dato politico di queste elezioni è proprio il rigetto della proposta politica del PD: è dunque sano per quel partito riprendere il percorso dall’opposizione e corretto per il paese che ciò avvenga. Del resto, cercare di ottenere il voto dei singoli parlamentari oppure aggregare il PD (come ruota di scorta o partner, non ha importanza) significherebbe impostare il nuovo governo sulla slealtà verso l’elettorato oppure ottenere la maggioranza grazie alla defezione dei membri da un partito, proprio due elementi essenziali della critica che gli avversari hanno rivolto al PD nella passata legislatura.

 

Prescindiamo però dal PD e torniamo, indipendentemente da chi la realizzi, all’unione su punti programmatici. Per essere chiari, i voti che hanno ricevuto i 5 stelle e la Lega non dipendono dai buoni rapporti che entrambi intendono stabilire con la Russia: altri sono i punti qualificanti e trainanti, e in cima vi sono da un lato il reddito di cittadinanza e dall’altro la flat tax. Un esecutivo che coinvolgesse queste forze politiche e fosse completamente monco di queste leve sarebbe già un tradimento dell’elettorato (e una troppo facile giustificazione a posteriori, facendo ricadere la colpa sull’alleato).

Di queste, e altre misure proposte, è stata da molti giornali documentata l’insostenibilità economica. In realtà, mi pare che nessuna proposta sia mai economicamente insostenibile: si tratta “solo” di capire come finanziarla. Al riguardo i partiti non sono stati troppo chiari, ma nulla esclude che possano schiarirsi loro stessi le idee in futuro. Misure di quel genere, però, non sono pensabili isolatamente. Sono porzioni di un disegno articolatissimo che preveda dove tagliare le spesa pubblica o cosa tassare. Richiedono cioè una convergenza politica pensabile giusto in un’alleanza solida e non certo in un patto transitorio per singoli punti. Nemmeno credo che convenga ai partiti fondare la convergenza su aspetti come il controllo dell’immigrazione perché, in assenza di una svolta nella politica economica, gli elettori potrebbero improvvisamente accorgersi che quel che veramente incide sulle loro vite quotidiane non è esattamente l’immigrazione.

 

Dunque, davvero intesa sulla legge elettorale e subito a votare. Se il tempo esigesse un governo per l’amministrazione dell’ordinario (e soprattutto per affrontare lo straordinario) riterrei che in un esecutivo di larghe intese un buon bilanciamento tra le reciproche responsabilità stia nel comporlo lasciando tutto lo spazio a chi ha ottenuto più consenso (o meno dissenso) alle ultime elezioni, esigendo tuttavia che i profili dei ministri siano meno colorati politicamente e più naturalmente istituzionali, e che tutti i membri prendano impegno di non rivestire cariche politiche nella legislatura che verrà.

 

Ovviamente l’intesa non è facile perché, a distanza di una settimana dal voto, tutti sono in grado di “simulare” il risultato elettorale e stabilire cosa loro conviene e cosa no. Non però nel caso del sistema elettorale australiano, visto che non si conoscono le seconde preferenze sulla scheda: esso avrebbe dunque pure il pregio di ripristinare il “velo d’ignoranza” sotto il quale dovrebbero operare i legislatori ideali.

Quanto al periodo, auspicabilmente breve, di coabitazione istituzionale, sarebbe bene che i partiti ne approfittassero per stabilire un clima fra loro più civile. Purtroppo un sistema “de-ideologizzato”, quale quello italiano asserisce di essere, non diminuisce i conflitti ma li esaspera perché tutti contano sullo stesso elettorato, e mirano a catturarlo con la sistematica denigrazione personale dell’avversario: che alla fine, però, si riflette sulla credibilità intera del sistema politico. Il pit-stop, inoltre, potrebbe far trascorrere il tempo necessario per educare i leader politici alla sensibilità istituzionale e alle regole basilari del gioco, evitando per il futuro che chi arriva primo, invece di chiedere ad altri il sostegno per governare, trovi normale che vadano quelli a bussare a causa sua, e si stupisce e adombra se questo non accade. E noi che assistiamo non sappiamo bene cosa auguraci, se ci è o ci fa.

Di |2020-09-11T15:16:20+01:0016 Marzo 2018|Il futuro della democrazia|

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