Come comportarci con gli animali

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Antispecismo, veganesimo e dintorni

La sovranità assoluta dell’uomo sulla terra subisce un attacco da due versanti contrapposti. Quello dell’IA, l’intelligenza artificiale che minaccia di surrogare il suo primato intellettuale, e della EA, emotività animale, rivendicazione di pari dignità promossa da un nuovo tipo di sensibilità. Entrambi i concorrenti reputano velleitario che l’uomo si eriga su un piedistallo facendosi scudo della coscienza, che lui possiederebbe, mentre i robot e gli animali no: si eccepisce a volte che la coscienza non basta a fondare una differenza gerarchica, altre volte che ce l’avranno (i robot) e che ce l’hanno (gli animali).

Da parte animale (che però di portavoce umani deve servirsi) viene attribuito all’uomo il peccato di specismo (ho un’anima immortale io, sono morale io, agisco razionalmente io), cioè credersi meglio degli altri animali ed ordinare il mondo di conseguenza, secondo pregiudizio e privilegio per sé. Dagli anni ’70 è nato così l’antispecismo, termine coniato dallo psicologo Richard D. Ryder e condotto a fulgore dal filosofo Peter Singer, autore del saggio La liberazione animale. La crescita dei consumatori vegetariani e del veganesimo (cioè di atteggiamenti alimentari, quelli che oggi hanno il peso ideologico che un tempo poteva essere della geopolitica), esponenziale negli ultimissimi anni, mostra come l’onda di consenso nel tempo sia lunga. Se un tempo la sensibilità animalista si risolveva nell’astenersi dall’indossare pellicce ottenute dallo scuoiamento delle bestie e nel non abbandonare il proprio cane in mezzo all’autostrada, oggi vengono messe in discussione le produzioni intensive, la stessa agricoltura, l’impiego degli animali nelle sperimentazioni scientifiche, l’intrattenimento nello zoo. E, appunto, lo stesso rapporto tra uomo e animali dentro la catena alimentare: del consumo di carne vengono contestate la sostenibilità ecologica e salutistica e infine l’equilibrio morale, che portato da alcuni alle sue estreme conseguenze si traduce in rifiuto verso ogni cibo di provenienza animale, come il latte o le uova. Tra gli intellettuali che con maggiore influenza hanno sposato il versante vegetariano della causa animalista va ricordato lo scrittore Jonathan Safran Foer, con il libro Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?

La sacralità dell’animale, che passa anche per un’esplosione iconografica accelerata dai social media, quasi ritorna alle fonti delle pitture rupestri del paleolitico. Vero, i cacciatori non si facevano scrupolo di frantumarne le ossa a giavellottate, e però si trattava di un’onesta contesa per la sopravvivenza. E soprattutto, tutt’altro che specisti, non stavano a perdere tempo scolpendo sulle pareti di roccia un essere insignificante come l’uomo ma dedicavano quei vagiti artistici agli animali (non solo la selvaggina, che uno può dire: era pensiero magico e speravano di farla apparire), trattati alla stregua di idoli (e i primi stregoni, non a caso, indossavano una maschera faunistica, sottintendendo la certezza che una cosmogonia che si rispetti non potesse prescindere dallo zampino -o dallo zampone- di qualche animale). Che poi la presenza umana fosse tonificante per l’ecosistema ambientate è un altro discorso, visto che con l’arrivo dell’Homo Sapiens scomparvero le specie giganti dei marsupiali in Australia, il Nord America perse 34 dei suoi 47 grandi mammiferi e il Sud America 50 su 60 (insomma, in proporzione il danno dei giorno nostri è risibile).

Anche dal punto di vista dell’idealizzazione la musica cominciò a cambiare con il passaggio alle società agrarie. Gli animali vennero domesticati e funzionalizzati, quali riserve di cibo e da lavoro: e tuttavia i cuccioli dei nuovi animali domestici presero a fare tutt’uno con la famiglia. Ancora nelle Baccanti, Euripide dà conto della pratica delle nutrici di allattare cuccioli di lupo e di cerbiatto, e non sappiamo se era licenza poetica in Grecia ma certo fu costume a lungo sopravvissuto in diverse regioni del mondo (e poi, nella nascita di Roma, parti invertite…). Di sicuro, prima della zoofobia giudaico-cristiana, i greci accorparono nell’epos uomini, dei e animali. Sarebbe stata poi la rivoluzione industriale a rimpiazzarli come lavoratori e a declassarli a oggetti e carne da macello, salvo il riguardo essenzialmente borghese per gli animali da compagnia, facendovi nel tempo rientrare stabilmente anche i gatti (solo da poco gattini o micetti): con sommo disappunto, si può immaginare, delle streghe mandate al rogo in Inghilterra nel Seicento in virtù di quella prova irrefutabile che era il sodalizio con uno spirito che aveva preso le sembianze di un felino.

Cosa distingue profondamente l’uomo dall’animale? Una delle risposte più interessanti si deve a Jakob Von Uexkull, fondatore dell’etologia contemporanea e precursore dell’ecologia, che nel 1934 pubblicò Ambienti animali e ambienti umani. La sua tesi di fondo, del tutto attendibile (e con qualche eco kantiana) è che ciascun essere, e persino ogni cellula, percepisce il mondo per come gli è utile adattivamente. Dove noi vediamo un arma contundente il cane annusa un  osso da spolpare. La differenza è che il cane (e con lui tutti gli animali) ragiona per specie, e quindi reagisce agli stimoli in modo essenzialmente deterministico, mentre l’uomo procede per individualità, e una donna a corto di bigodini potrebbe introdurre un tocco insolito di civetteria anche con l’osso. Il grande antropo-filosofo Arnold Gehlen tenne a ribadire il punto smentendo che, ad esempio, il corvo imperiale che impiega uno straccio per ricavarne un nascondiglio pensi: “Beh, per adesso prendiamoci questo”, visto che lo stesso Konrad Lorenz ammetteva che il corvo non avesse alcuna idea della nozione di nascondiglio. Heidegger affinò le osservazioni di Uexkull proclamando che l’animale vive “stordito” nel suo ambiente, soggiogato dall’istinto, mentre l’uomo  vive nel mondo, che contribuisce a formare e costruire. Heidegger ne concludeva che l’animale è “povero di mondo”. Va da sé che sul rapporto uomo/animale nessuno di questi concetti ha il potere di rivelarsi decisivo. Il tasto su cui si batte con insistenza per sottolineare il salto specistico dell’uomo è il linguaggio. Ma qualcuno, di cui disgraziatamente mi sfugge in questo momento l’identità, ha scritto sarcasticamente: “Gli animali non hanno la ricorsività del linguaggio, quindi li possiamo mangiare”.

La similitudine si è spostata sulla qualità di essere senziente dell’animale, sulle prove crescenti che prova se non sentimenti, che richiedono consapevolezza interiore, quanto meno emozioni (oltre ovviamente a dolore e piacere). La scoperta dei neuroni specchio è passata per lo studio dei bonobo ma non c’è bisogno di aggirarci tra i nostri parenti più stretti. Le api mellifere, dall’alto dei loro 95.000 neuroni, ma persino i modesti vermi caenorhabditis,con i loro 302, mostrano una vivace (pur se tediosa a confronto di quella di un gentleman) gamma di emozioni sociali. Frans De Waal ha potuto dedurre dai suoi studi come animali, anche minuscoli, siano assai meno storditi dallo stimolo ambientale di quanto supponeva Heidegger e possiedano a vari livelli una personalità distinta.

Ciononostante, se la mettiamo sul piano bruto (in questo caso) della razionalità,  gli argomenti antispecisti fanno acqua da tutte le parti, per non dire del fatto che i rimedi sul piano dell’amorevolezza sono peggiori dei mali. La cessazione della pastorizia implicherebbe non far nascere le mucche o le pecore, non tenerle in libertà (sterilizzando quelle che ci sono: quale schiaffo peggiore al benessere a quella che si vorrebbe autodeterminazione dell’animale sarebbe sottrargli la riproduzione!). L’esenzione dalle interferenze umane reclamata da Singer condurrebbe all’estinzione di alcune specie, che si sono ripopolate grazie all’intervento umano (che, per carità, è di solito più abile nel farne scomparire). Alcuni simboli di sottomissione sono fraintesi storicamente: la recinzione nacque per tenere le bestie al riparo dai predatori, lo zoo moderno nella sue migliori espressioni non esibisce più il trionfalismo tassonomico ma consente di preservare, da parte delle masse, una conoscenza della vita animale che tende a sparire dalla loro percezione (si pensi a uno zoo come San Felicin in Canada). Quanto all’insistenza sull’essere senziente, essa precluderebbe la discriminazione tra piante e animali. Ma quel che più traballa è l’assunto di fondo, la parità di specie: se in effetti si applica le legge di natura, l’unica neutrale, la relazione tra le specie non è davvero che una si prenda cura delle altre ma che se ne serva per massimizzare il proprio benessere. E’ paradossale che per negare il primato della specie umana si invochi un concetto tanto specificamente umano come quello di diritto (che non a caso non può trovare un corrispondente in una serie di doveri da parte dell’animale). La verità è che il pacchetto più consistente della dottrina animalista è incentrato su un’antropomorfizzazione del temperamento o dei desideri animali (cui l’animazione ha fornito una sponda decisiva) assai più che su una seria analisi delle loro esigenze, viste dalla loro prospettive. Nella realtà, l’antispecismo deve contentarsi della motivazione storico-ideologica per la quale l’oppressione animale è un aspetto dell’oppressione capitalistica, sessista e razziale e osteggiare la prima significa spianare la strada per la liberazione della seconda. Insomma, l’animale si riduce opportunisticamente a un compagno di strada nella lotta politica (compagno maiale?) di liberazione umana. Questo benedetto uomo, l’animale, per un verso o per l’altro, proprio non riesce a toglierselo dalle palle.

Perché non si può maltrattare un animale? Mi viene da rispondere come Sant’Agostino: se nessuno me lo chiede lo so bene, ma se volessi darne spiegazione non saprei. Io so bene che è uno stronzo chi lo fa, e mi frapporrei per impedirlo, ma come ho appena scritto la teoria viene più difficoltosa.

Si potrebbe dire che assuefarsi al dolore provato da un animale rende tollerabile anche il dolore inflitto all’uomo (tornando a una motivazione di tornaconto), come dimostrerebbero l’esempio strutturale che i campi di sterminio hanno preso dai mattatoi. In realtà, come testimonia la simbiosi dei borgatari violenti con i loro cani, non è affatto detto che la simpatia per l’uno travasi nell’altro (per pescare un esempio più gentile, uno degli scrittori che più detestano la razza umana, Michel Houllbecq, ha dedicato una mostra fotografica e testuale di una tenerezza infinita al suo cane). E’ vero però mai si dà il caso contrario, cioè di qualcuno che odi gli animali e innaffi invece pietosamente il seme dell’umano.

Nell’amore per gli animali leggo un meraviglioso arbitrio, più comune all’uomo che non alle altre specie. Nell’obbligo che l’umanità deve accollarsi di tutelare gli animali leggo il buono dello specismo: la tracotanza di sovrapporre le proprie leggi convenzionali a quelle più crudeli della natura. La parola chiave non mi sembra diritto ma piuttosto rispetto, che ha pure il pregio di illuminare la vicenda dal lato autentico della sensibilità umana (e della necessità di educarla) piuttosto che da quella fittizia della pretesa giuridica ricorribile in cassazione dello sparviero. La sensibilità ha il limite, ma anche la forza di essere descritta dalla sua epoca, e contiene un inevitabile margine di determinazione individuale. Per questo rispetto i vegetariani ma non demordo dal mordere la carne, conscio che se diversamente si deve evolvere si evolverà. Tale è la relatività dei costumi alimentari che, come sostenne l’antropologo Marvin Harris in un eccellente saggio, “Buono da mangiare”, per cessare il cannibalismo si è dovuto attendere che fosse economicamente più vantaggioso ridurre l’uomo in schiavitù invece che metterlo in pentola.

L’antispecismo indiscriminato, parecchio più intollerante dello specismo (ma che ti vuoi aspettare? Sono umani, troppo umani), finisce per mischiare confusamente piani che andrebbero tenuti distinti e le battaglie che meriterebbero il pieno arruolamento ne escono indebolite. La produzione in batteria, la macellazione industriale e la sperimentazione su animali per i cosmetici, ad esempio, dovrebbero essere combattute da noi tutti con un ricorso drastico al boicottaggio di quelle merci. Mi spiace chiudere con un’esortazione di tanta banale evidenza, ma è necessario dato che non è quanto accade. L’intenzione ci sarebbe. Ma quanto a tenacia abbiamo altro che specismo, (non) siamo dei cani. Senza offesa, naturalmente.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2021-11-12T12:41:57+01:0012 Ottobre 2018|Limite di velocità|

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