Agorete. Alcune illusioni digitali sulla democrazia.

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Il recente dibattito sulle fake news sta incrinando la tesi che la carica informativa del web sia un propellente della democrazia.

Ma, in ogni caso, basterebbe davvero essere informati per rimuovere i conflitti? Forse che gli eserciti nemici, le organizzazioni dei lavoratori  o i movimenti di contestazione e quelli che mandavano la polizia a manganellarli, le etnie che si sono scannate nelle guerre civili scontavano essenzialmente un problema di informazione? “Ma bastava saperlo! Adesso ci siamo chiariti!” sarebbe stata, in un commovente abbraccio pacificatore, la conclusione che avrebbe disinnescato i rancori e i divergenti interessi?

Con la televisione certo siamo stati informati piuttosto male, o almeno peggio di quanto ci aspettavamo (e però meglio di come eravamo informati prima). Ma questa doglianza ha finito per spostare i termini della questione democratica, dimenticando che l’informazione aiuta ma davvero non dissipa i conflitti, e che lo scopo politico di una società, specialmente se democratica, è essenzialmente quello di dirimere i conflitti. Se saremo più informati di prima, ma il nostro scopo primario rimarrà quello di utilizzare tale informazione per servire gli interessi personali anziché quelli collettivi, la democrazia non ne trarrà alcun beneficio, anzi.

 

Un altro equivoco sulla conoscenza acquisita on line è legato al fatto che le tecnologie digitali, per la loro multimedialità fanno circolare anche emozioni: ci informiamo attraverso suoni, immagini ancora più che attraverso testi. Il presunto dato oggettivo (che magicamente si realizzerebbe con l’ampliamento del punto di vista soggettivo, creato dalla moltiplicazione dei punti di vista) si mischia indissolubilmente al dato percettivo, rendendo quell’informazione una bellissima esperienza sensoriale ma non necessariamente una spinta alla deliberazione razionale. A proposito della possibilità di votare via web si è giustamente osservato quale sarebbe il probabile esito di una deliberazione sulla pena di morte che venisse preceduta da qualche delitto efferato.

Inoltre, che molte più persone parlino non vuol dire che vengano ascoltate. Il pluralismo infinito dell’informazione è nemico di se stesso, poiché ogni voce nuova rende più critica l’individuazione di ciascuna voce, e d’altronde i veri onnip-utenti, grafomani digitali, non sembrano personalità inclini a conformarsi a Borges, quando disse di essere molto più orgoglioso dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. Oltre a ciò, il vero problema è che la gerarchia dei media tende a riprodurre quella già esistente, o al massimo a ospitare pochi outsider per volta.

 

Ma quando si tratta di informazione politica il travisamento più eclatante riguarda l’idea che si tratti di quello che le persone cercano.

Quando in Germania Est riuscirono a captare i programmi della Germania Ovest si pensò che le informazioni dai notiziari avrebbero scosso i cittadini, spingendoli a mobilitarsi contro la dittatura. Fu un’amara sorpresa constatare che la ricezione dei programmi dal mondo delle libertà tranquillizzasse invece i tedeschi dell’area comunista che trovarono in Dinasty e nelle altre serie di intrattenimento occidentali una forma di evasione dal grigiore quotidiano. La tv occidentale, del tutto coerentemente con la prospettiva critica che la accusava di essere un sedativo nei paesi di appartenenza, svolgeva la medesima funzione normalizzante nell’est, dove gli oppressi non si fiondavano a vedere i notiziari e quando lo facevano li consideravo faziosi veicoli della propaganda nemica.

La memoria storica, il punto debole degli aficionados della Rete che tendono ad appiattire la realtà sul presente, è un utile ammonimento sulla vacuità del determinismo tecnologico che attribuisce alla capillarità dell’informazione dei media digitali la capacità di iniettare robuste dosi di democrazia nella popolazione.

Avere a disposizione l’informazione non significa servirsene effettivamente. Ci sarà una ragione per la quale i programmi di informazione televisiva vanno in seconda e in terza serata e l’audience si cristallizza intorno ai reality, ai talent, alle serie. Perché mai le persone dovrebbero andare sui siti politici invece che su quelli di intrattenimento? Circa il 35% degli utenti di Internet si riversa sui siti pornografici. Nel 2007 la percentuale di persone che negli Stati Uniti entrava sui siti di informazione politica era lo 0,12% e da allora l’incremento è stato minimo, né le cifre sono migliori in Europa.

Anche la diversificazione, conseguente alla pluralità dell’offerta, è un mito. Buona parte degli utenti accede all’informazione attraverso i motori di ricerca, che indirizzano ai siti più linkati secondo un meccanismo che si autoalimenta e tende a riprodurre la medesima concentrazione dei media tradizionali. L’illusione di disfarsi dei mediatori e delle loro strumentalizzazioni interessate si risolve nel consegnarsi a mediazioni meno trasparenti. Nessuno conosce i criteri di scelta degli algoritmi di Google, che pure sono alla fine quelli che decidono dove andremo ad approvvigionarci delle notizie e delle informazioni. Negli Stati Uniti i siti politici visitati dal 70% degli utenti sono una decina.

Del tutto immaginaria è la propensione alla discussione e al dibattito che i media digitali, e segnatamente i social network, svilupperebbero. Un’istruttiva indagine sui twitt che hanno seguito le elezioni regionali del 2012 offre risultati sconcertanti. E’ vero che a mandare twitt sono le categorie più svariate: i politici, i giornalisti, i cittadini, Però se li mandano tra loro, internamente a ciascuna categoria secondo il principio dell’omofilia. Viene confermata l’intuizione che il web spinge a compattarsi, non a espandersi. La Rete è un catalogo di reti separate che tendono a non comunicare tra loro. Con buona pace della presunta natura discorsiva dei social network.

 

Se il web non è in grado, con le sue forze, di rianimare la democrazia nei paesi dove già esiste (con tutti i limiti che le possiamo attribuire) lo si potrebbe almeno ritenere utile a introdurla dove non c’è. L’esempio che abbiamo fatto della Germania induce sospetto verso l’equazione. E però a sostegno si cita l’esempio delle twitter revolution. Quando mai le piazze sarebbero state invase dalla folla, e avrebbero ribaltato i regimi della Tunisia e dell’Egitto, se le masse non fossero state chiamate all’appello dai social network?

Purtroppo i dati evidenziano la totale inconsistenza di questa tesi, che già si era dimostrata velleitaria nel caso della ribellione iraniana nel 2009. Gli account di Twitter sono pochissimi in rapporto alla popolazione di quei paesi: in Egitto, addirittura, al tempo della rivoluzione aveva un account twitter poco più dello 0,01% della popolazione, parecchio meno significativo di quel 28% che è tuttora analfabeta. L’esaltazione di Twitter è il pavoneggiamento dell’Occidente, che quando non “esporta” la sua democrazia con le bombe espropria i popoli arabi della propria autonomia culturale, decidendo che non è la disperazione delle masse ma quei graziosi gingillini con cui da noi ci si messaggia il luogo di appuntamento per l’happy hour a scalzare i tiranni che quei pezzenti, senza l’url e l’hashtag, si dovrebbero tenere sul groppone per chissà quanti secoli.

 

Sembra di assistere a una commedia dell’assurdo quando la “Twitter revolution” viene risolta nella segnalazione continua degli spostamenti, un risultato che alla fin fine potrebbe in contesti piccoli ottenersi anche con le vuvuzelas e che conferirebbe una patina pre-rivoluzionaria agli stradari e all’elenco del telefono.

Più serio è concentrarsi sulla qualità emotiva che la mobilitazione via twitter o facebook sollecita, essenzialmente grazie alla forza delle immagini. E’ vero che l’autocombustione inflittasi da Mohamed Bouazizi non sarebbe stata così coinvolgente senza la viralità e la ripetizione che la tecnologia digitale consente. E però, esaurito l’apprezzamento per l’apporto al caso specifico, viene la pelle d’oca a pensare che siamo punto e a capo a fronte del tempo che c’è voluto perché ci liberassimo della presunzione di verità assoluta delle immagini, infiacchita da un lungo e costruttivo dibattito sulla falsa obiettività della fotografia, e ora  riproposta come nuova da un mezzo assai più manipolabile della fotografia tradizionale.

E quand’anche si riconoscesse questa qualità di tenere alta nel tempo la tensione emotiva, e la mobilitazione che me consegue, rimane il problema irrisolto della sua inettitudine costruttiva. Faceva già tenerezza vedere l’Occidente esultare con l’Egitto per una vittoria che di fatto consegnava il paese ai militari, ciò che in tempi di maggiore consapevolezza politica veniva considerata la peggiore iattura possibile per la democrazia. Ma dov’erano gli eroi del 7 aprile quando i Fratelli Musulmani prendevano il controllo del paese e lo restituivano a una normalizzazione autocratica? Tutti in Occidente a tenere conferenze per spiegare quanto fosse stato decisivo l’apporto dei social network alla rivoluzione egiziana. Il territorio, il cui presidio fisico costituisce l’unico strumento efficace di lotta per il potere, era nelle mani di quelli che, senza troppe ciance digitali, ne avevano acquisito il controllo con un certosino lavoro di proselitismo e presenza di corpi nello spazio. Verrà un giorno in cui l’opposto del pragmatismo non sarà avere la testa tra le nuvole ma avere la testa nel cloud.

Se un contributo essenziale a una rivoluzione proviene dai social network non è tanto l’immissione di informazione all’interno del paese (e tanto meno nel lungo periodo il raccordo tra le forze di opposizione) quanto la diffusione dell’informazione fuori dal paese. In questo modo si determina una pressione internazionale che, quella sì, sarebbe stata impensabile prima del web. Il guaio è che non funziona sempre. Funziona quando gli Stati Uniti hanno da giustificare all’opinione pubblica il loro sostegno a un regime e, di fronte all’evidenza di massacri che un tempo non abbattevano il muro del silenzio, sono costretti a ritirarlo. Ma questo non basta quando l’opinione pubblica si preoccupa più della sicurezza interna che dei massacri all’estero (si veda il recente attacco in Siria); o più semplicemente quando lo stato è abbastanza ben organizzato da non far neppure montare la protesta, come in Russia dove il sito più popolare, Russia.ru, manda in onda sul web show a ripetizione che calamitano l’interesse del pubblico assai più dei blog di informazione sui cui gli occidentali li immaginano immersi.

Quest’ultimo esempio ci rammenta che i media digitali non servono solo all’opposizione ma anche al potere. E anzi, il lavoro svolto dall’opposizione può essere felicemente messo a frutto dai dittatori per rintracciare, con nomi, cognomi e indirizzo, quelli che si sono sbilanciati in pericolose fraternizzazioni su Facebook, che hanno svolto qualche ricerca non gradita su Google e per spazzare via i link cui si collegavano. I social network, e più in generale il web, svolgono gratuitamente in outsourcing (o con la medesima dedizione dei clienti delle compagnie low cost, che si accollano il lavoro degli impiegati su cui le compagnie risparmiano) l’archiviazione che un tempo richiedeva un oneroso costo di apparato.

Quando si sottolinea che la tecnologia digitale produce trasparenza si omette ed edulcolora che tale tecnologia ha in primo luogo natura squisitamente spionistica, come se mai avesse reciso il cordone ombelicale con la sicurezza militare che fu il primo movente per sperimentarla. Senza neppure alambiccarsi su come possono utilizzarla i cinesi, i russi o gli iraniani basta rammentare gli scandali recenti dell’amministrazione americana, oltre che dedurre il tipo di atteggiamento che multinazionali, abituate a schedare i propri utenti per far comparire loro sul display la pubblicità di una protesi anale non appena si siedono sulla tazza al mattino, possono assumere verso le richieste dei governi.

Per consolarci della vigilanza cui siamo sottoposti dovremmo godere della sua simmetria, e cioè del fatto che essa investe anche i potenti. E una magra consolazione questo panopticon reclinabile. Ci rimane male persino il bambino che arriva a una spiaggia naturista ed esclama: “Ma sono tutti nudi!” quando il re gli si avvicina e gli ringhia sul muso: “Già! E con questo?”.

 

Tratto con minime variazioni da “Cosa resta della democrazia”

Dalla democrazia di Atene a quella del web, un atto di accusa verso un regime politico che non riesce più a risollevarsi e mantenere le sue promesse. Una revisione radicale dei concetti di libertà, eguaglianza e giustizia, contro ogni ipocrisia, per salvare l’ideale della democrazia mediante una serie di soluzioni rivoluzionarie senza passare per la rivoluzione. Un tentativo di riconciliare i cittadini e gli stati (entrambi oggi assai lacunosi) nel segno di una nuova democrazia partecipativa responsabile.

Di |2020-09-11T15:16:47+01:0021 Aprile 2017|Cosa resta della democrazia|

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